Cinque sì per ribellarci al lavoro povero e precario

6 Giugno 2025
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

[Marco Contu]

Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025 siamo chiamati a esprimerci su 4 referendum riguardanti il lavoro, nello specifico su tre temi di importanza cruciale nella regolazione dei rapporti di lavoro: i licenziamenti, il contratto di lavoro a tempo determinato, la sicurezza sul lavoro.

I temi dei referendum, per quanto possano sembrare tecnici e complessi, hanno una incidenza diretta e centrale nelle vite delle lavoratrici e dei lavoratori, in quanto le disposizioni legali, più o meno rigide, sui licenziamenti e sull’utilizzo del principale contratto di lavoro precario non sono per nulla neutre rispetto alle politiche di gestione della forza lavoro da parte del capitale.

Il posizionamento rispetto ai temi proposti dal referendum è anche una chiara scelta rispetto a una visione di società e di futuro: la controffensiva neoliberista, tendente a deregolamentare il lavoro e diminuire le “ingombranti” tutele dei lavoratori che limitano la competitività e la libertà di impresa, ha avuto come capisaldi proprio l’aumento della flessibilità in entrata (leggasi: introduzione di tipologie contrattuali precarie) e della flessibilità in uscita (leggasi: licenziamenti più facili).

L’ideologia neoliberista, a guida del potere politico, economico e finanziario egemone in Europa da oltre trent’anni, si è mossa e continua a muoversi sulla base di un semplice presupposto: diminuire ed eliminare le rigidità presenti nel mercato del lavoro con le riforme strutturali permetterebbe un aumento dell’occupazione e un maggiore sviluppo economico, grazie a una più elevata capacità delle imprese di adattarsi ai cambiamenti, così raggiungendo spontaneamente l’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro.

Questo presupposto ideologico non ha trovato e non trova riscontri empirici nei mercati del lavoro [1]; al contrario, non ha aumentato l’occupazione, ha acuito le disuguaglianze sociali, ha eroso i salari insieme ai diritti, ha reso sempre più precarie le vite delle persone, con tutti i problemi che la precarietà si porta appresso: dalla sicurezza sociale ai riflessi demografici.

In Italia, come ovunque, l’ideologia della flessibilità ha trovato sponda sia nei governi di centrodestra che in quelli di centrosinistra. Essa prende corpo anzitutto con la L. 196/1997 («Pacchetto Treu») e l’apertura dell’ordinamento al lavoro interinale, seguita nel 2003 dalla epocale «Legge Biagi» (L. 30/2003), con l’introduzione di nuovi modelli di lavoro precario e la flessibilizzazione di quelli già esistenti, passando poi alla Riforma Fornero (L. 92/2012), con la prima vera manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

L’apice di questo percorso liberalizzante è avvenuto con il Jobs Act di Renzi, la L. 183/2014, cui sono seguiti otto decreti attuativi, tra cui il D.Lgs. 23/2015, che ha introdotto un nuovo regime di tutele per i licenziamenti individuali dei dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015, mantenendo il regime dell’art. 18 per i dipendenti assunti in precedenza, con l’obbiettivo di archiviarlo con il tempo per morte naturale.

Il primo referendum, l’unico su cui mi soffermerò in questo articolo, riguarda proprio l’abrogazione completa del Decreto Legislativo n. 23/2015, il cosiddetto contratto a tutele crescenti.
A dispetto dell’ingannevole nome, tipico della retorica renziana, con tutele crescenti si intende solamente che l’indennità risarcitoria per un licenziamento illegittimo (quindi privo di una giusta causa o di un giustificato motivo) cresce all’aumentare dell’anzianità di servizio all’interno dell’azienda.

Lo spartiacque, storico, rappresentato dal Jobs Act sta proprio qui, nel capovolgimento del sistema rimediale per i licenziamenti illegittimi e contra legem: se con l’articolo 18, per le aziende con più di 15 dipendenti, la tutela ordinaria a un licenziamento illegittimo era la tutela reale, cioè la reintegrazione sul posto di lavoro, con il Jobs Act la tutela standard è diventata un misero indennizzo economico, compreso tra un minimo e un massimo e quindi calcolabile in anticipo dal datore di lavoro, rendendo marginale la reintegrazione.

Il Decreto n. 23 ha riunito in unico testo la disciplina dei licenziamenti, a prescindere dalle soglie dimensionali dell’impresa (per semplicità possiamo dire che l’art.18 della L. 300/1970 si applica alle aziende medio-grandi, mentre la L. 604/1966 alle aziende più piccole) con l’intento di superare il dualismo tra “lavoratori garantiti” e quelli meno tutelati, operando volutamente verso una maggiore uguaglianza, sì, ma al ribasso (abbassiamo le garanzie a tutti e tutti saranno più uguali).

L’obiettivo, ribadito più volte dal legislatore del 2014, era liberare il mercato del lavoro da presunte rigidità, attrarre investimenti, ridurre i costi legati alla cessazione del rapporto di lavoro e aumentare la produttività. La maggiore facilità nei licenziamenti introdotta dal Jobs Act ha di fatto reso precario anche il lavoro a tempo indeterminato, rafforzando il potere ricattatorio del datore di lavoro: un lavoratore meno protetto sarebbe, nelle intenzioni, più produttivo per paura di perdere il posto.

Emblematico, in tal senso, l’articolo 3 delle Tutele Crescenti [2], sul quale, così come per altri articoli, è intervenuta la Corte Costituzionale a dichiararne l’illegittimità costituzionale; questo va detto: il decreto 23, sebbene ha mantenuto la struttura e l’ideologia, non è più quello originario, fortunatamente ridimensionato dalla giurisprudenza costituzionale, ma questo semmai è un ulteriore elemento per comprendere la portata eversiva delle politiche renziane sul lavoro.

A distanza di dieci anni dal Jobs Act, i risultati raggiunti in termini di produttività, occupazione, flex-security, non si sono visti [3]; d’altronde, poter pensare di cambiare la struttura occupazionale con gli strumenti giuslavoristici rimane una pura illusione.

Per questo motivo, è importante essere consapevoli che votare quattro SÌ non risolverà tutti i problemi del lavoro in Italia, ma rappresenterebbe un segnale forte di inversione di rotta rispetto a oltre trent’anni di legislazione ostile ai diritti dei lavoratori.

Le politiche di questi anni hanno amplificato tutti i problemi sociali legati alla precarietà, rendendo l’Italia un paese sempre meno sicuro per i giovani e per le fasce più deboli della società; si è solidificato un mondo del lavoro, da una parte sempre più povero e, dall’altra, sempre più soggetto ai poteri datoriali.
In questo senso va letto il favore delle destre al fallimento del referendum e al mantenimento dell’attuale assetto giuslavoristico.

Il governo Meloni ha proseguito nel processo di precarizzazione attraverso norme marginali ma incisive, spesso poco visibili ai non addetti ai lavori; ha attaccato le fasce più deboli eliminando il reddito di cittadinanza e depotenziato l’intervento protettivo della Naspi per chi ha perso il lavoro. Strumenti indiretti per ridurre il ruolo sociale dello Stato e difendere il potere autoritario anche all’interno dei rapporti di lavoro, proiezione della loro più vasta visione di sicurezza, della quale abbiamo avuto ampia dimostrazione con il D.L. 48/2015, ora convertito in legge.

Chi conosce il mondo del lavoro e delle imprese sa bene che le aziende più sane e regolari sono quelle con contratti stabili, dove vi è meno turn-over, dove i lavoratori e le lavoratrici sono parte attiva dei processi e delle tecniche produttive e non una mera e passiva variabile degli stessi, dove i luoghi di lavoro sono protetti e liberi dalle nocività, dove i lavoratori partecipano alle scelte di indirizzo strategiche, dove si sentono valorizzati con investimenti sulla formazione e sul futuro, dove il loro apporto è valorizzato con salari dignitosi che garantiscono una esistenza libera.

Di questo ha bisogno il lavoro. Tutti elementi non compatibili — banale dirlo — con un rapporto di lavoro segmentato e ricattabile. Votare 4 Sì per il lavoro e un Sì per la cittadinanza significa tracciare un nuovo cammino, cambiare rotta, immaginare un nuovo modello democratico che rimetta il lavoro, e non il mercato ad ogni costo, al centro.

Al contrario, il fallimento di questo referendum significherà il rafforzamento delle destre e delle forze neoliberiste, che avranno la certezza matematica, sancita dal voto, che le lavoratrici e i lavoratori di questo paese sono d’accordo con le politiche sui licenziamenti facili, sulla precarietà, sulla liberalizzazione del mercato del lavoro.

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[1] v. Brancaccio E. e Giammetti R., 2019, Le «riforme strutturali» del mercato del lavoro: promesse politiche ed evidenze empiriche, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, 2/2019, pp. 193-209

[2] Art. 3, comma 1 – […] nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità […] Comma 2. Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria […]. Il comma 1 stabilisce la regola generale: anche se il licenziamento risulta illegittimo, si estingue il rapporto e il datore di lavoro paga una indennità al lavoratore. Il comma 2 stabilisce una deroga: in caso di inesistenza materiale del fatto addotto dal datore di lavoro, il lavoratore viene reintegrato: in sostanza se il datore di lavoro si inventa di sana pianta un motivo per licenziare il lavoratore, legandolo a una colpa dello stesso, in questo caso c’è la reintegrazione. Se il datore di lavoro si inventa di sana pianta un “giustificato motivo oggettivo”, quindi un motivo di licenziamento legato a problemi economici o di riorganizzazione della produzione, anche se questi motivi sono inesistenti non c’è alcuna reintegrazione.

[3] v. Ferrucci G. e Tati V., 2025, Dieci anni di Jobs Act: i numeri del lavoro, in Occupazione, salari e lavoro povero nell’era della precarietà. Sfide del sindacato, sfide della democrazia, Tati V. (a cura di), pp. 17-53. Link https://www.futura-editrice.it/wp-content/uploads/2025/05/Occupazione-salari-e-lavoro-povero.pdf  

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