Le parole nel pianto di Mostafa Mastur racchiuse in ‘’Osso di maiale e mani di lebbroso’’, un viaggio febbrile tra le infinite sfumature dell’animo umano
22 Ottobre 2025
[Mattia Lasio]
Ritmi frenetici, speranze disattese, sentimenti profondi che lacerano l’animo, amori vissuti visceralmente ma incapaci di concretizzarsi in qualcosa di stabile e duraturo.
In poche parole, la vita in tutte le sue sfumature e in tutte le sue molteplici forme che, spesso, sfuggono a causa dei mille impegni che la quotidianità presenta. Di questo, e tanto altro, parla il celebre scrittore iraniano classe 1964 Mostafa Mastur nella sua opera ‘’Osso di maiale e mani di lebbroso’’, una delle fatiche letterarie più significative della letteratura persiana contemporanea di cui nel 2025 ricorrono i vent’anni dalla pubblicazione e dalla vittoria come miglior romanzo al prestigioso Festival di Isfahan. Un’opera pubblicata in Italia per la prima volta nel 2011 dalla casa editrice Ponte33 – che sta facendo luce su tante voci autorevoli del vasto panorama della letteratura persiana – la quale focalizza il suo sguardo sulle infinite fragilità dell’animo umano e sulle tante verità, spesso taciute, che solo in pochissimi hanno il coraggio di esternare.
L’opera, un romanzo breve ma estremamente incalzante poco superiore alle novanta pagine, è ambientato in un condominio all’interno di un grattacielo nel quartiere di Khavaran della capitale dell’Iran ovvero Teheran. Non un luogo qualsiasi in quanto a Khavaran si trova la fossa comune in cui sono seppellite le vittime delle esecuzioni del 1988 che si tennero per volontà dell’allora ayatollah Ruhollah Khomeyni, causando una quantità di vittime il cui numero va dalle ottomila alle trentamila, per lo più giovani studenti delle superiori o giovani appena laureati. Una delle pagine più triste della storia dell’Iran, per la quale nessun esponente delle autorità è mai stato chiamato a dare spiegazioni e tanto meno a pagare per quanto commesso.
Il libro, costituito da cinque capitoli, si apre con il personaggio di Daniel, il più significativo tra quelli creati dall’autore, che dal quattordicesimo piano del grattacielo di Khavaran in cui vive con la propria madre, apre la finestra della sua abitazione per gridare rabbiosamente tutto ciò che ha dentro. Le sue parole sono macigni: «Ma guardatevi un attimo intorno!», afferma, «Se vi guardaste un attimo intorno, capireste quanto male avete fatto, capireste quante cose insensate e balorde avete combinato. E adesso dove diavolo credete di andare così di fretta? Quale altra scemenza dovete fare che gli altri non hanno già fatto?».
La penna di Mastur è colta e raffinata, dalla sua prosa chiara e sognante, a tratti febbrile, si colgono le influenze del noto scrittore statunitense Raymond Carver – di cui tante opere Mastur ha tradotto – così come dei film del noto cineasta polasto Krzysztof Kieslowski di cui nel 2026 ricorreranno i trent’anni dalla scomparsa. I temi affrontati sono molteplici, grazie all’abilità di Mostafa Mastur di tratteggiare personaggi estremamente veritieri e concreti e al contempo sfuggenti ed eterei, sempre sul punto di scomparire: si parla della tristezza della fine di una lunga relazione tramite il giornalista Mohsen, spesso ossessionato dal proprio lavoro, e della moglie Simin che da lui si è sempre sentita trascurata. Tra di loro si inseriscono i dubbi della loro figlia Dorna, che nonostante sia poco più di una bambina cerca risposte per i propri interrogativi complessi.
Si riflette sulle difficoltà di un amore a distanza tramite la storia di Hamed e Mahnaz, l’amore è ancora protagonista nell’analisi del rapporto struggente tra la prostituta Susan e l’istrionico e malinconico poeta Kiyanush, traspare appieno anche il lacerante senso di impotenza davanti ai colpi bassi del destino nella figura del professore di astronomia Mohammad Mofid che si trova a fare i conti con la leucemia galoppante del figlio Elias di appena dieci anni. Le riflessioni più autentiche e dense di significati sono affidate al personaggio di Daniel che si differenzia dagli altri in quanto dotato di una empatia a tratti feroce che non sa, o forse non vuole, gestire, aspetto questo che lo rende unico. In lui non c’è alcuna titubanza nel parlare schiettamente di quanto possa essere meschina la vita degli esseri umani così come di quanto possano cadere in basso gli uomini. A riguardo scrive: «Se gli uomini si togliessero di mezzo e se ne andassero, si porterebbero via tutte le guerre, gli omicidi e le altre oscenità. Tutte le schifezze e le porcherie esistenti appartengono agli uomini».
Lo sguardo di Mastur è attentamente focalizzato anche sulla violenza, impersonificata da Malul e Bandar assetati di denaro per cui sono pronti a tutto e per cui arrivano a uccidere e sfregiare brutalmente il corpo dell’anziano Abbas Mohtasham in modo da impossessarsi del suo anello d’oro. Il lirismo onirico e struggente che caratterizza da sempre la letteratura araba, salta fuori in modo dirompente tramite i versi che il personaggio del giovane poeta Kiyanush dedica alla sua musa Susan, incentrati sulla notte e sulla magia da essa emanata. Il loro confronto serrato e al contempo di una delicatezza rara è tra gli istanti più toccanti e sentiti dell’opera. «Anche le persone che non valgono niente qualche volta si innamorano. Non sei d’accordo?», chiede affranta Susan per poi proseguire. «Vorrei avere dei bambini con te. Due, tre. Quanti ne vorrai. Ti prego, non mi lasciare. Io non voglio tornare indietro. Non è giusto che tu mi abbia portato fino a questo punto per poi lasciarmi. Voglio vivere come un essere umano, Kiya». La risposta di Kiya, nella sua essenzialità, è quanto di più doloroso si possa dire. «Tu sei la mia più bella poesia, Susan, ma io ho paura».
Una paura che prova anche Hamed, innamorato di due donne nello stesso frangente, contraddistinto però da una dirompente necessità di esprimere quel che prova nonostante ai più possa sembrare sconveniente. Paura che probabilmente ha dentro di sé anche Daniel ma che combatte con parole che sono delle vere e proprie stilettate che colpiscono anche gli animi più arcigni. E a lui, sul finale dell’opera, che si deve un’ultima e necessaria riflessione sulle parole e sul loro compito. Quelle parole che definisce sapientemente come «parole nel pianto». Parole che mettono spalle al muro e che portano chi le legge e chi le ascolta a una analisi interiore da cui non può sottrarsi. «E voi chi siete?», conclude con rabbia. «Un pugno di parole assurde, vane e senza senso. Un pugno di parole brutte e volgari. La vita altro non è che parole in gioco. Dal cuore di ogni parola – per quanto possano apparire gioiose – trasuda lentamente un umore salato e trasparente. Lo chiamano pianto. È così, seppur andrete a nascondervi, quella sostanza vi verrà a cercare». Proprio come dice il personaggio di Daniel, busserà alla nostra porta qualcosa di inatteso: c’è chi ancora una volta si chiuderà nella propria indifferenza e chi invece, seppur a fatica, aprirà il proprio cuore a questo flusso di parole. Forse, a quel punto, sarà fatto davvero un primo passo per andare al di là del volere ragione a tutti i costi e per la costruzione di un dialogo reciproco in grado di essere, davvero, proficuo.







