Ripristinare la natura. Intervista al professor Paolo Pileri
23 Ottobre 2025
[Valter Canavese]
La nostra capacità di gestire più o meno bene il tempo, e tutto quello che lo riguarda, è molto opinabile. Sottovalutiamo, rimandiamo o neghiamo l’esistenza dei problemi anche a fronte di segnali non proprio misteriosi. È così anche per l’ambiente, il clima, pronti a lamentarci ma tenaci nel rimandare le soluzioni, noi ma purtroppo anche la politica.
Nel 2024 La Comunità Europea ha approvato il “regolamento 1991” più comunemente al Regolamento UE 2024/1991, noto anche come “Legge per il Ripristino della Natura”, che è entrato in vigore nel 2024 e impone agli Stati membri dell’UE di adottare misure per ripristinare gli ecosistemi degradati. Non abbiamo più tempo, non solo, se non lavoriamo fin da subito nel ribaltare l’uso indiscriminato delle risorse naturali avremo la sicurezza di un punto di non ritorno.
Questo Regolamento dispone nuove norme per ripristinare gli ecosistemi degradati, che siano terrestri, marini, dell’aria, di zone fluviali e lacustri; con loro gli animali che li abitano, città come le campagne, zone umide. Le tappe sono potenzialmente forzate; entro il 2030 gli stati europei dovranno ripristinare le condizioni ambienti favorevoli di almeno il 30% degli habitat compromessi, percentuale che sale al 60 % nel 2040 e almeno il 90% nel 2050.
Sul Regolamento abbiamo chiesto una valutazione al professor Paolo Pileri –ordinario di pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano – autore di libri su argomenti ambientali quali “Dalla parte del suolo” e “L’intelligenza del suolo”.
Professore come giudica nel complesso il Regolamento, qual è, a suo avviso, l’atto “rivoluzionario” di queste norme e i punti di caduta?
In questo clima politico grigio, per non dire nero, dove sono sempre e solo finanza, massimo profitto e speculazione a fare da motore a ogni azione politica e dove la questione ambientale è un accessorio, un regolamento sul ripristino della natura ha lo stesso effetto di un bicchier d’acqua a chi non beve da giorni. È il figlio inaspettato di combinazioni politiche che non volevano diventare genitori di nessun atto concreto a favor di natura, preferendo riempirsi la bocca di promesse vuote per le prossime generazioni, senza muovere un dito. Il regolamento ora c’è, e, lo ricordo a chi fosse sfuggito, è già legge vigente in Italia. Ovunque. Gli obiettivi iscritti nel regolamento sono giuridicamente vincolanti e i primi scadono giù nel 2030, come, ad esempio, il ripristino efficace (notare l’aggettivo efficace, per piacere) di almeno il 30% (non il 3%) degli ecosistemi terrestri, idrici interni, marini e costieri degradati “al fine di rafforzare la biodiversità e migliorare le funzioni e i servizi ecosistemici, l’integrità ecologica e la connettività”. Se non è una rivoluzione questa, non saprei quale dovrebbe esserla. Eppure, di tutto questo non si parla da nessuna parte. Non un ministro ne parla. Ma, ed è forse ancora peggio, non un parlamentare di opposizione ne ha fatto la propria ossessione studiando come dare tanta voce a questo regolamento, per mettere in scacco il governo al quale, non avendolo votato in Europa, il regolamento non piace.
In un suo recente articolo, pubblicato sulla rivista “Altra Economia” sottolinea la assenza di iniziative politiche sul Nature restoration law, mentre entro il 2026 andrebbero ripristinati almeno il 30% di tutti gli habitat descritti in regolamento. Cosa è possibile fare nel tempo che rimane, quali le priorità?
Abbiamo perso più di un anno. La prima cosa da fare è non perdere altro tempo e correre all’impazzata per mettere giù un piano di ripristino della natura, dare avvio a una capillare campagna di rilevazione per radiografare il Paese e individuare tutte le aree degradate da ripristinare. Ma la cosa ancora più urgente da fare è, ovviamente (ma non la do per scontata) fermare tutte le azioni e tutte le politiche che generano un impatto irreversibile sulla natura. Quindi stop al consumo di suolo. É evidente che non ha alcun senso ripristinare un’aiuola e cementificare poco più in là un campo.
Alcuni temi importanti investono particolarmente la Sardegna: il comparto delle energie rinnovabili e la difesa e la sicurezza nazionale. Ritiene vi siano spazi di intervento in queste direzioni?
Non c’è scritto nel regolamento che le regioni devono stare a guardare se il manovratore nazionale fa qualcosa. Possono portarsi avanti. La Sardegna può iniziare a indicare tutte le sue aree che richiedono ripristino, può apporre vincoli, può agire in autotutela forse. C’è un regolamento per il ripristino della natura che ci consente di generare nuove iniziative e, quantomeno, di avere in tasca un nuovo mazzo di carte di argomenti per fermare le aggressioni ai suoli e alla natura. Va usato. I politici regionali della grande isola vadano in giro a parlarne. Non aspettiamo che il piano nazionale ci tolga le castagne dal fuoco. Men che meno sul fronte rinnovabili che rimane, anche nel regolamento, quello che gode di maggiori gradi di libertà, purtroppo. Quindi bisogna agire di anticipo. E presto.
Il Regolamento prevede il ripristino di ecosistemi marini e delle acque interne e delle zone paludose, nonché il potenziamento di misure a favore degli insetti con un nuovo “patto per gli impollinatori”, con soluzioni fattive entro il 2030. Come difendere questo interesse prioritario dagli interessi delle industrie agrochimiche?
Senza ombra di dubbio politici, amministratori e tecnici pubblici ne devono sapere di più di qualunque privato che ha interessi di sfruttamento di suoli e di natura. questa è la prima questione. Purtroppo, questo ritardo nel preparare il piano di ripristino avvantaggia chi vuole ostacolare il regolamento e/o vuole continuare a saccheggiare il nostro paesaggio. Il regolamento di ripristino della natura è uno strumento per una grande politica pubblica e quindi le forze pubbliche devono capire che attendiamo il loro protagonismo. Quando dico protagonismo dico, ovviamente, che non possiamo farci dettare le regole da chi ha interessi di ogni tipo di sfruttamento dell’ambiente. Né possiamo sottostare ai soliti ricatti che durano mezza giornata ma con effetti pesanti. Ad esempio, le lusinghe di promesse di lavoro fatte da chi pretende terre per grandi insediamenti produttivi/logistici o lo spalmare fotovoltaico a terra. Il ruolo di chi fa politica pubblica è trovare soluzioni che siano migliori di quanto molto spesso suggerito dagli investitori.
Affrontiamo un tema che ha ben descritto nel suo libro. Il Regolamento prevede una riumidificazione dei suoli organici come definiti dalle linee guida del Gruppo Intergovernativo del Cambiamento Climatico nel 2006. La base della esistenza della vita di questo pianeta dipende da una esplosione di energia che pervade i primi 30 centimetri dei terreni. Come avere cura di questo microsistema organico?
Intanto ricordiamo che il Regolamento, al punto 23 delle sue premesse che sono parte interante del regolamento stesso, afferma che i suoli sono parte degli ecosistemi terrestri. Questa che può sembrare una banalità è invece una svolta culturale senza precedenti in Italia. Nel nostro Paese non vi è legge che abbia mai riconosciuto il suolo come ecosistema per un motivo molto semplice. L’art. 117 della Costituzione stabilisce che è esclusiva competenza dello Stato, e non delle Regioni, occuparsi di ecosistemi. Una affermazione corretta perché gli ecosistemi sono per natura non confinabili, men che meno entro perimetri politici e amministrativi. Non riconoscendo lo stato di ecosistema al suolo, ha sempre fatto da padrone unico una definizione di suolo piegata all’utilità urbanistica e agricola. Per la legge italiana, e per quelle regionali, il suolo è una risorsa da usare e sfruttare. E ogni regione l’ha definita come gli pareva stabilendo le proprie regole di uso e abuso. Da qui il consumo di suolo stellare che piega sotto il peso del cemento il nostro Paese da anni. Voglio vedere cosa succederà ora. Il buon senso vuole che prevalga il regolamento sulla retrograda legge italiana e quindi si dovranno correggere le norme regionali e rivedere le competenze. Evviva. Ma sappiamo come va nel nostro paese. Soprattutto vediamo una opposizione che ha perso ogni slancio ecologico e sonnecchia su questo tema. E invece occorre destarsi e fare rumore. Il 30% di biodiversità è nei primi 30 cm di suoli sani. È evidente che se vuoi proteggere quel patrimonio ecologico non puoi continuare a farlo mordere da 20 regioni e 8000 comuni, ognuno come gli va. Il consumo di suolo va immediatamente fermato e non c’è occasione migliore di questo regolamento per riaccendere questa urgenza. La maggioranza non lo farà mai, l’opposizione si desti per piacere e provi, almeno ci provi, a mettere in scacco il governo e a parlare di questo regolamento ovunque e ogni momento. Ogni parola non detta è una coltellata alla natura di cui chi ha in ruolo politico è più responsabile di altri.
Il regolamento non si salva da solo, né da solo salverà il suolo sardo. Il regolamento ha bisogno delle migliori volontà e di quella coraggiosa rivoluzione culturale che troviamo scritta nella Laudato Sì. Se daremo voce al regolamento, il regolamento sarà, quanto meno, un sassolino nell’ingranaggio della speculazione. Vietato il silenzio.







