A quale stirpe appartieni?

16 Gennaio 2010

quercia

Mario Cubeddu

“Luigi Ippolito si è mésso distéso sul létto rifàtto”. Non è Manzoni, sono le prime parole di un romanzo, Stirpe di Marcello Fois, pubblicato da Einaudi nel settembre 2009. L’aggiunta degli accenti serve  a marcare la metrica degli anapesti usati dall’autore per scandire il ritmo della prosa. Ad avvertirci che non si tratta semplicemente di un racconto di vicende umane. Le famiglie dei romanzi sono spesso composte da personaggi ideali. Belli, buoni, appassionati. Le vicende che li segnano provengono dai colpi del destino, non da errori, peccati, o difetti del carattere. Questo avviene talvolta quando dietro questi personaggi si adombra una propria storia, o leggenda, familiare. Un simile sguardo appannato dalla benevolenza è possibile ritrovarlo in particolare nelle pagine che gli scrittori sardi dedicano  alle proprie famiglie. Pensiamo alla Deledda e a Lussu. Non certamente nel Salvatore Satta de Il giorno del giudizio. Riportando (o inventando, che sarebbe lo stesso) la  frase che don Sebastiano Sanna Carboni rivolge alla moglie donna Vincenza: Tu sei al mondo perché c’è posto, lo scrittore delinea, senza traccia di inopportuna pietas familiare, un formidabile quadro di distanze affettive e di sofferto disamore. Stirpe è un titolo ben impegnativo. Esprime un concetto più elevato e più esteso rispetto a quello di “famiglia”. Perché in realtà di questo si tratta: della storia di una famiglia ambientata nel tremendo e definitivo “secolo breve” sardo. Quello che comincia nell’età in cui si conclude il processo di formazione della “proprietà privata perfetta”, si radica l’industria mineraria che strappa dai villaggi e dalle campagne decine di migliaia di uomini e di donne (il primo impatto di un modello industriale coloniale, poi tante volte ripetuto,  che non crea né una classe dirigente borghese né un solido proletariato “nazionali”, nel senso di sardi), la scolarizzazione dei figli dei prinzipales di paese porta ad una nazionalizzazione della piccola borghesia sarda che ne farà i migliori ufficiali dell’esercito italiano quando saranno chiamati a guidare i propri conterranei nelle trincee della Grande Guerra.  Il romanzo termina con la “fine della Sardegna”, da collocare nel tempo della resa al fascismo e dell’assimilazione subalterna alla penisola italiana. L’epoca che prepara gli anni della diaspora, il tempo in cui centinaia di migliaia di sardi abbandonano materialmente l’isola e chi vi resta la lascia  con la mente e il cuore. In poche parole una coppia che proviene dal nulla della condizione di orfano senza passato si conclude con la fusione delle stirpi e la definitiva inclusione nella realtà italiana. Gli elementi appena elencati e i precisi riferimenti cronologici contenuti nel romanzo non devono però ingannare: questo non è un romanzo storico. Manca sostanzialmente la dimensione collettiva, che ha una parte fondamentale anche in un romanzo familiare come  Il giorno del giudizio. Gli elementi di analisi politica e  di storia sociale appaiono in modo casuale e frammentario come connettivo delle vicende familiari. Il personaggio centrale, colui a cui si affida l’interpretazione mitologica della storia della famiglia, impazzisce ai primo impatto con i drammi del suo tempo e muore suicida.  Il fascismo compare in modo caricaturale come rivincita di ceti decaduti nel novembre del 1922. Nei giorni della Marcia su Roma a Nuoro si tenne il congresso del Partito Sardo d’Azione che non si era ancora arreso al fascismo. L’inverno tra il 1922 e il 1923 fu segnato in tutta la Sardegna da una guerriglia di strada tra sardisti e fascisti che rende improbabile l’esibizione delle camicie nere a un matrimonio. Tanto meno siamo nel campo del realismo. Come è assolutamente improbabile che alla fine dell’Ottocento dei genitori affidassero una somma notevole a dei bambini perché li consegnassero in campagna a braccianti che avevano finito il lavoro, così è impossibile incendiare una vigna umida di linfa e verde di foglie alla fine di agosto. Ma è soprattutto l’indiretto libero che appare in maniera estemporanea, usato più per riempitivo e variazione che come sviluppo di una dialettica di personaggi di contorno, ad apparire forzato e poco credibile. A Fois non interessa un quadro di storia sociale, interessa in primo luogo la scrittura. E questo libro è certamente pieno di sapienza letteraria. La “stirpe” si forma in maniera classicamente romanzesca. I capostipiti sono orfani o reietti, trovatelli abbandonati, come nelle favole e nei racconti di fondazione, da una principessa che non può tenerli con sé. Giovani e belli, si incontrano e si innamorano nell’atmosfera sacra e  magica di una chiesa. Né realismo né storia, quindi. Piuttosto una vena lirica che accompagna le vicende drammatiche di personaggi molto amati dall’autore, come se in ciascuno ci fosse una sua proiezione. Si può raccontare la storia con gli strumenti della poesia?  L’autore articola il racconto in tre parti che scombinano e riprendono il nome e l’ordine delle cantiche dantesce, Paradiso, Inferno e Purgatorio. Il riferimento non è solo al contenuto, ma all’ambizione di ricavare, attraverso il linguaggio, il senso profondo delle esistenze umane. Cosa per cui spesso non basta il racconto delle scelte fatte e delle parole dette, ma è necessario il fuoco della parola poetica. Una vena forte di poesia corre nelle pagine del romanzo ed emerge sin dall’inizio in clausole ritmiche proprie di una metrica segreta del narratore. Esemplare in questo senso la mezza pagina in cui il fantasma di Luigi Ippolito racconta al fratello Gavino “il mio tempo”. “speranza trasparente dei vetri”.  Lirismo significa  che l’io dell’autore, che presumiamo presente dietro la voce narrante, invade l’azione narrata, dandone una interpretazione puntuale cui i suoi personaggi difficilmente arriverebbero da soli, commentando dall’esterno  esperienze ed atmosfere. Naturalmente il canto d’autore emerge continuamente sia in forma della ricerca di immagini “poetiche”, sia in una prosa intessuta di figure retoriche e di una metrica raffinata. Anche l’esperienza indicibile della guerra si manifesta in una sintesi di immagini espressionistiche presentate da un fantasma ricomparso al fratello sofferente.  Lirica e mito, più che epica di una stirpe, o di un popolo.

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