Angelo Corsi: il socialismo riformista come scelta di vita

1 Dicembre 2021

[Claudio Natoli]

Questo intervento riprende la relazione online svolta da Claudio Natoli durante la presentazione del volume di Alessandro Cuccu, Angelo Corsi: l’azione socialista in Sardegna tra età liberale e fascismo, Associazione Minatori Nebida, Cooperativa Tipografica N. Canelles, Iglesias, 2020 (Iglesias, 8 ottobre 2021).

Vorrei dire anzitutto che questa ricerca, che oggi viene pubblicata con il patrocinio dell’Associazione Minatori Nebida e della Fondazione di Sardegna, non sembra aver perduto nell’ultimo lungo quindicennio che la separa dall’originaria tesi di laurea, della sua attualità. Gli studi sul movimento operaio nell’Iglesiente e anche sulla Sardegna tra età liberale e fascismo hanno certo conosciuto significativi progressi, su cui in questa sede è impossibile soffermarsi, ma non altrettanto si può dire per la figura di Angelo Corsi. Ha ragione l’autore quando nell’introduzione sottolinea una insufficiente valorizzazione della sua figura e del suo pensiero protrattasi sino ai giorni nostri. A questo processo di rimozione a me pare abbiano concorso molteplici fattori: da una parte, il fatto che la fase più intensa e impegnata degli studi sul movimento operaio in Sardegna tra gli anni ’70 e ’80, al di là degli importanti risultati che sono stati raggiunti, si è caratterizzata per una più o meno accentuata sottovalutazione dello spessore e delle realizzazioni del socialismo riformista; dall’altra si è assistito innegabilmente, per una fase prolungata, al concentrarsi dell’attenzione degli studiosi soprattutto sulle figure, di assoluta rilevanza internazionale, di Gramsci e di Emilio Lussu.

Noterò solo per inciso che nelle due belle biografie dedicate da Giuseppe Fiori a Gramsci e a Lussu, il nome di Corsi figura nella prima una sola volta e solo occasionalmente nella seconda, malgrado i rapporti di stima e di amicizia che, come documenta Alessandro Cuccu anche sulla base di un interessante carteggio inedito del 1957 che viene ora qui pubblicato, intercorsero tra loro. A ciò mi permetterei di aggiungere un’ultima ragione, di carattere più direttamente politico: e cioè la scelta di Corsi di aderire dopo la scissione socialista di Palazzo Barberini del 1947 a un partito che sarebbe rimasto nei suoi orientamenti di governo sempre più estraneo alla storia e alle tradizioni allora profondamente radicate nel movimento operaio italiano, con indubbie ricadute nelle polemiche politiche e, in una certa misura, anche nel giudizio retrospettivo degli storici.

In questo scenario, tanto più rilevante appare il “salto di qualità” nel panorama degli studi rappresentato dal libro che presentiamo questa sera. Esso costituisce, dopo i contributi pionieristici di Francesco Manconi, la prima approfondita biografia scientifica su Corsi condotta su uno spettro straordinariamente ampio di fonti originali e in non piccola parte fino ad oggi rimaste inedite: esse spaziano dai periodici socialisti dell’epoca pubblicati in Sardegna e anche sul piano nazionale, agli atti parlamentari, agli scritti editi di Corsi, ai documenti contenuti nell’Archivio centrale di Stato, negli Archivi di Stato di Cagliari, nell’Archivio comunale di Iglesias, e, non ultimo, nel ricchissimo archivio personale di Corsi, che Alessandro Cuccu ha avuto il merito di reperire presso i familiari, di sottrarlo all’oblio e di averlo anche ordinato.

E’ da qui che discende una dettagliata ricostruzione delle diverse fasi dell’itinerario politico e intellettuale di Corsi: la prima adesione al socialismo venata da accenti deamicisiani e di intensa condivisione verso la sorte dei poveri e degli oppressi; la tenace azione di riorganizzazione, di tutela e di educazione dei lavoratori delle miniere iglesisienti dopo l’ondata repressiva seguita ai moti del 1906, sfociata nel 1910 nell’Associazione generale delle miniere e fondata insieme a Giuseppe Pichi e a Luigi Garau; e poi la ferma denuncia dell’uso clientelare e grettamente proprietario delle istituzioni pubbliche da parte delle élites dirigenti borghesi asservite agli interessi delle aziende minerarie e l’impegno per la conquista dei comuni come momento di emancipazione dei lavoratori e di gestione alternativa dei pubblici poteri da parte degli amministratori socialisti. Un processo culminato nel 1914 nella conquista dei comuni di Iglesias, Gonnesa, Fluminimaggiore, Portoscuso, Calasetta, sino alla prima isola socialista di Carloforte, già celebre per lo storico sciopero dei battellieri, diretto già negli anni della crisi di fine secolo da Giuseppe Cavallera.

Del tutto giustamente l’autore, attraverso le parole di Corsi, sottolinea il carattere di “svolta storica” di questo cambiamento, che vedeva i lavoratori delle miniere, da folla anonima, disunita, indisciplinata, assurgere a soggetto collettivo capace di promuovere un nuovo corso amministrativo ed affermare un’altra idea di bene comune volta per la prima volta alla tutela dei diritti delle classi lavoratrici. Ma qui emerge anche la portata del “trauma” che tutto ciò significò per le élites dirigenti locali, che si erano sempre sentite depositarie esclusive di un potere legittimato da mere ragioni di ceto e di classe e che negli anni a venire avrebbero condotto una lotta frontale contro le amministrazioni socialiste (peraltro riconfermate anche nelle elezioni del 1920), fino ad affidarsi alla violenza fascista legittimata dalle autorità legali dello Stato, al fine di rovesciarle. Tuttavia, ciò poté avvenire solo dopo la “marcia su Roma” e la formazione del governo Mussolini, che promosse il commissariamento prefettizio del Comune di Iglesias nel dicembre 1922 (di alto valore simbolico fu che allora, accanto agli squadristi, fosse presente l’ex sindaco liberale Pietro Fontana, sconfitto da Corsi alle elezioni del 1914).

Una delle parti più originali di questa ricerca è quella dedicata al sindaco Corsi e alle attività del Comune di Iglesias nel periodo della neutralità e poi negli anni della guerra e del “biennio rosso”. Pur nel quadro delle necessità di risanamento del bilancio, delle ristrettezze belliche e dei vincoli imposti dagli organi di controllo amministrativo, è qui evidente un’attenzione costante, anche se tutt’altro che improntata a un radicalismo classista, all’assistenza agli strati più poveri e alle famiglie dei richiamati, agli approvvigionamenti e al contenimento dei prezzi dei generi di prima necessità, alla sanità pubblica (con l’apertura dell’ospedale di Iglesias) e alle case popolari, unita a una redistribuzione progressiva della tassazione a carico dei ceti proprietari.

E’ qui ravvisabile uno dei tratti caratteristici del riformismo di Corsi, sempre ispirato all’arte del possibile e alla concretezza del fare, in un clima di conciliazione dei conflitti e di auspicata collaborazione tra tutte le forze favorevoli al progresso, allo sviluppo di una moderna società borghese e al superamento delle arretratezze di tipo feudale. In questo Corsi si identificava pienamente e si sarebbe sempre identificato con la cultura politica di Turati e dei leader delò socialismo riformista al lui più vicini e anche con il suo retroterra positivistico e deterministico: esso vedeva nello sviluppo capitalistico la premessa per una piena affermazione della democrazia parlamentare, per una collaborazione con le forze borghesi più illuminate e per un’evoluzione pacifica verso il socialismo, nel quadro di un contesto politico-sociale privo di acuti conflitti politici e sociali e di una ininterrotta crescita delle organizzazioni del movimento operaio. Il limite maggiore di questo orientamento era, tuttavia, che esso non avrebbe trovato riscontro, già prima e ancor più dopo la “grande guerra”, né nelle scelte prevalenti nel mondo industriale e finanziario, né nell’involuzione conservatrice del liberalismo italiano alleato con il cattolicesimo moderato e con i nazionalisti, né infine con lo stesso progetto giolittiano, volto a un’integrazione subalterna di determinati settori delle classi lavoratrici settentrionali nelle istituzioni monarchico-liberali.

E questo ancor più in Sardegna, dove peraltro lo Stato liberale, per usare le parole di Corsi, aveva mostrato perlopiù il “suo volto autoritario e violento”. Un giudizio che potrebbe estendersi all’intero Meridione e, in notevole misura, nel corso del “biennio rosso” sul piano nazionale, se solo si considera il numero impressionante di eccidi contro le classi lavoratrici perpetrati allora dalle forze dell’ordine e dei reparti dell’esercito sotto l’egida dei governi liberali. Di qui la crisi del riformismo socialista già al tempo della guerra di Libia, e di qui, soprattutto l’incomprensione in seguito dimostrata dai leader storici del riformismo nei confronti del fascismo e con loro anche da Corsi (ma su questo tornerò alla fine di questo intervento).

E’ merito di questa ricerca aver rilevato tuttavia un importante elemento di specificità del riformismo di Corsi. E cioè la sua estraneità sia alla più che limitata attenzione alle questioni istituzionali, sia alla tradizione settentrionale e operaista del socialismo italiano, che demandava la soluzione dell’arretratezza del Meridione alla piena affermazione del capitalismo industriale del Nord. Tutto ciò implicava una inevitabile subordinazione alla politica giolittiana e il disconoscimento di ogni autonoma soggettività ai contadini e alle classi popolari meridionali e delle Isole. Un’influenza determinante in tal senso, come scrive l’autore, fu esercitata su Corsi dal soggiorno a Firenze, dall’insegnamento di Salvemini e dalle suggestioni della “Voce”: di qui la sua convinta adesione alla Lega antiprotezionista, come chiave di volta per un affrancamento del Meridione e della Sardegna dalla politica “coloniale” del governo e dei gruppi industriali e finanziari settentrionali.

In questo, come anche nell’adesione di Corsi alla cultura economica liberista, è ravvisabile una sorprendente convergenza con la prima formazione di Gramsci, sotto la comune influenza di Attilio Deffenu. E di qui l’offerta nel 1917 da parte di Gramsci a Corsi a collaborare al periodico torinese “Il Grido del popolo”, in nome –così scriveva- dell’affinità sulla questione doganale e dell’esigenza di far meglio conoscere la Sardegna nuova, di cui Corsi era espressione, nell’Alta Italia. Siamo qui nel cuore di uno degli aspetti più significativi del riformismo di Corsi, che approdò nel primo dopoguerra a un progetto di decentramento amministrativo su basi regionali che dalla Sardegna, nel rigetto di ogni tentazione separatistica, avrebbe dovuto allargarsi all’intero Stato italiano, con l’abolizione delle province e dei prefetti e con una profonda riforma della burocrazia.

Proprio sull’impegno di Corsi su queste tematiche sia nel Consiglio provinciale di Cagliari, sia nei suoi interventi alla Camera dei deputati, questa ricerca si sofferma dettagliatamente, mettendone in luce la ricchezza e l’originalità. Nel quadro di tale particolare sensibilità assume la dovuta rilevanza la convergenza di Corsi con il Partito sardo d’azione sia prima che dopo la scissione del 1923 e segnatamente il già citato rapporto di stima e di amicizia con Emilio Lussu, nonché l’attenzione rivolta verso il ruolo che il partito da lui guidato avrebbe potuto svolgere nella costruzione di un più ampio fronte antifascista dopo la crisi Matteotti. E aggiungerò soltanto che in questo, al di là della profonda diversità di orientamenti politici, è dato cogliere un ulteriore elemento di affinità con l’elaborazione sulla questione meridionale e l’attenzione verso il partito guidato da Lussu da parte di Gramsci e del nuovo gruppo dirigente del Partito comunista nel 1924-26.

Altra cosa è riflettere sulla posizione di Corsi nei confronti del fascismo. Nel 1921-22 Corsi si impegnò in un’azione incessante di denuncia del clima di violenza e di sopraffazione creato dallo squadrismo fascista nell’Iglesiente, della distruzione sistematica delle organizzazioni di classe dei minatori con il sostegno o la complicità delle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico, a cominciare dalle istituzioni prefettizie. Ma dalla documentazione qui pubblicata emerge anche un dato più generale: e cioè la radicalità e la pervasività della reazione di classe contro il movimento operaio e socialista nell’Iglesiente, la sorveglianza e la persecuzione dei militanti anche nella vita quotidiana, che si intreccia con la violenza squadrista e cui fanno riscontro lo scioglimento delle amministrazioni comunali socialiste, le serrate delle aziende minerarie e il licenziamento in massa degli operai sindacalizzati, l’annullamento dei contratti di lavoro, il coro di invettive contro la “tirannide rossa” dei giornali isolani di opinione e dello stesso quotidiano cattolico.

Ciò che ne risulta è la figura di Corsi come di oppositore irriducibile del fascismo, determinato, anche negli anni della dittatura, a non piegarsi né di fronte alle persecuzioni né di fronte alle lusinghe, che pure non mancarono, e capace di resistere con dignità non solo alle continue intimidazioni, alle perquisizioni domiciliari e agli arresti, ma anche all’isolamento che sempre più ne segnarono la vita quotidiana negli anni della dittatura (davvero toccante è l’episodio delle richieste di restituzione del ritratto di Matteotti arbitrariamente sequestratogli nella sua abitazione da parte delle locali autorità di polizia).

Può sembrare paradossale, in questo contesto, che a tutto ciò si accompagnasse una sostanziale incomprensione storica del fenomeno del fascismo, che, sia prima che dopo la “marcia su Roma” Corsi considerò un fenomeno improvvisato e temporaneo che si sarebbe potuto a suo giudizio evitare con la formazione di un governo di coalizione a partecipazione socialista, malauguratamente vanificata dal massimalismo del PSI. In questo egli condivideva pienamente con i leader storici del riformismo socialista (diversa era però la visione di Matteotti) le illusioni e anche la mancata percezione della qualità nuova del fascismo e delle radicali trasformazioni che la “grande guerra” aveva determinato nello Stato e nella società italiana, nonché lo spostamento verso la reazione di una parte consistente della piccola borghesia e la convergenza ormai in atto verso il fascismo da parte di tutte le élites tradizionali del potere. Oltretutto, anche dopo la caduta del regime, si ha l’impressione che Corsi abbia continuato a privilegiare, anche in polemica con Lussu, la tesi crociana della fascismo come “malattia morale” e come “parentesi nella storia d’Italia, ma il tema potrebbe essere oggetto di ulteriori precisazioni.
In conclusione, una volta detto il bene possibile di questa ricerca, non vorrei dare l’impressione che essa sia perfetta in ogni sua parte.

Alcuni passaggi (ad es. la posizione di Corsi sulla “ grande guerra” sospesa tra pacifismo socialista ed empatia con l’ideale mazziniano e salveminiano delle terre irredente) avrebbero forse meritato un maggior approfondimento. D’altra parte, alcuni giudizi sulla storia del PSI e sui comunisti tra guerra e dopoguerra, sembrano ricalcare un po’ troppo da vicino la vis polemica di Corsi. Ciò nulla toglie ai meriti di questo lavoro, che costituisce sicuramente un contributo di ricerca originale molto importante e, ne sono sicuro, sarà un presupposto imprescindibile per ogni ulteriore ricerca.

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