Autonomia fiscale differenziata: un progetto che ridurrebbe l’Italia a un “Paese arlecchino”

16 Marzo 2020

Pablo Picasso, Arlecchino allo specchio

[Gianfranco Sabattini]

Diverse regioni italiane hanno avanzato la richiesta di una maggiore autonomia in materia fiscale; in due di esse, Veneto e Lombardia, a sostegno della richiesta, si è svolta nel 2017, una consultazione referendaria, diretta a conoscere il parere degli elettori riguardo all’istituzione del cosiddetto “regionalismo fiscale differenziato”. La richiesta è stata recepita dal Governo centrale, ma ad essa non è stata ancora data una risposta definitiva, salvo un Accordo preliminare, sottoscritto all’inizio del 2018 dal Sottosegretario agli Affari regionali e dal Presidente della Regione della Lombardia, che definisce i principi e le metodologie condivisi per l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione e che prefigura alcuni livelli significativi di autonomia su diverse materie. L’Accordo lascia impregiudicato il prosieguo del negoziato sulle richieste di autonomia fiscale differenziata e sulle altre materie indicate dalle Regioni del Nord del Paese; accordi preliminari di contenuto analogo sono stati sottoscritti nella medesima data anche da parte delle Regioni Veneto ed Emilia-Romagna.

La pretesa delle regioni del Nord dell’Italia in tema di autonomia fiscale differenziata trova il suo fondamento nella riforma costituzionale del 2001, ovvero nel terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, che ha rappresentato per i governanti delle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna la legittimazione ad agire per ottenere una ridefinizione del “residuo fiscale” (inteso come differenza tra le tasse pagate e la spesa pubblica complessiva ricevuta sotto forma di trasferimenti o in generale di servizi pubblici), al fine di trattenere nei loro bilanci una maggior quantità delle risorse derivanti dal gettito fiscale dei rispettivi territori.

L’ordinamento dello Stato italiano non è di tipo unitario (nel senso che il potere istituzionale è da esso esercitato centralmente), ma di tipo composto, essendo il potere distribuito tra lo Stato centrale ed organismi territoriali da esso distinti, titolari di un potere istituzionale su determinate materie, mediante organi rappresentativi espressi dalle popolazioni locali.

Lo Stato composto si è storicizzato nelle due varianti di Stato federale e di Stato regionale. La prima variante è quella degli Stati federali storici (Stati Uniti, Canada, Australia, Svizzera, ecc.), che sono nati da un’aggregazione di più entità statali, dopo la decisione di unirsi per dare vita ad uno Stato sovraordinato. Il sistema dei partiti si è sviluppato solo successivamente alla costituzione degli Stati federali storici, nel senso che i partiti si sono formati in un “ambiente” di “tipo federale”, con un’organizzazione interna decentrata sul piano territoriale, attraverso la quale hanno partecipato alla definizione delle relazioni tra il centro e la periferia.

Nella seconda variante, riguardante gli Stati federali nati per disaggregazione di precedenti Stati unitari (Regno Unito, Belgio, Spagna, ecc.), i partiti hanno invece interferito con il processo di federazione, perché la loro organizzazione accentrata risultava compatibile solo con una definizione delle relazioni tra il centro e la periferia che mal sopportava qualsiasi forma di asimmetria istituzionale. Non casualmente, gli Stati federali nati per disaggregazione di precedenti Stati unitari sono quelli che hanno presentato e continuano a presentare, dopo la loro costituzione, le maggiori difficoltà nel governo delle relazioni tra lo Stato federale e gli Stati federati che lo compongono.

Questa seconda variante di Stato composto è quella assunta con l’ordinamento regionale, sancito in Italia dalla Costituzione repubblicana, dopo la fine del secondo conflitto mondiale. La scelta di dare vita ad un ordinamento regionale potrebbe dare l’impressione che con esso sia stato realizzato quel processo di decentramento istituzionale, da sempre “tormento” della vita politica nazionale, sin dall’inizio dell’Unità del Paese. Tuttavia, l’ordinamento regionale, pienamente attuato a partire dagli anni Settanta, con successivi i “aggiustamenti” culminati nella modifica, nel 2001, del Titolo V della Costituzione, ha prodotto solo l’illusione che si fosse arrivati alla sconfitta del mito del centralismo.

Con l’istituzione delle regioni, infatti, si è pensato che l’organizzazione dello “Stato unitario” avesse iniziato a cedere spazio a processi di decentramento istituzionale di tipo federativo, riducendo, e in qualche caso annullando, la differenza tra Stato unitario e Stato federale; per quanto quest’ultimo non possa essere identificato in uno Stato regionale, il processo di decentramento realizzatosi dopo il secondo conflitto mondiale ha inaugurato la tendenza verso il trasferimento di poteri istituzionali alle autonomie territoriali. In questa prospettiva, l’ordinamento regionale è stato contrapposto a quello dello Stato federale, in quanto considerato una forma di decentramento meno intenso rispetto a quella realizzabile con la soluzione federativa, della quale il federalismo fiscale, cioè il decentramento decisionale parziale agli Stati federati in materia fiscale, può essere considerato una legittima declinazione.

In Italia la discussione sulla natura del decentramento istituzionale ha sempre accompagnato, sia pure in modo discontinuo, il confronto politico, sin dal momento in cui si compiva il processo di Unità nazionale; a fronte della soluzione unitaria che le forze conservatrici hanno inteso dare al problema dell’organizzazione dello Stato, si è contrapposta la posizione democratica di chi pensava di salvaguardare, attraverso la soluzione dello Stato composto regionale, l’eccessivo potere dello Stato unitario, opponendogli una pluralità di poteri locali.

La soluzione regionalista è stata adottata dopo l’avvento della Repubblica; ma nonostante il diverso clima politico e culturale (anche allora, per ragioni politiche contingenti), l’idea dello Stato composto di tipo federale non si è concretizzata, o quantomeno è stata realizzata nella forma di un ordinamento regionale, per lo più attuato sulla base di un decentramento decisionale di tipo prevalentemente amministrativo. L’idea dello Stato di tipo federale è stata riproposta sul finire del secolo scorso, per essere accolta, nel 2001, nei limiti (non propriamente federalisti) indicati dalla riforma del Titolo V della Costituzione; riforma che è valsa a diffondere l’illusione che sovrapporre all’”impianto regionalistico” innovazioni istituzionali d’ispirazione federalista potesse consentire di realizzare un decentramento decisionale in materia fiscale, prescindendo dal problema della “gestione” degli squilibri economici esistenti sul piano territoriale.

L’”illusione federalista in materia fiscale” e l’individuazione delle modalità con cui si è inteso attuarla, sulla base della riforma del Titolo V, ha indotto molti critici a considerare, a ragione, la celebrazione delle consultazioni referendarie di Veneto e Lombardia come l’inizio della fine dell’unità istituzionale (oltre che territoriale) del Paese; secondo altri, la consultazione avrebbe rappresentato, sul piano immediato, l’inizio della “secessione delle regioni ricche”, per via del fatto che, con la ridefinizione del residuo fiscale, sarebbe venuta menolo strumento fondamentale a disposizione del governo centrale per ridurre le disuguaglianze distributive regionali esistenti e persistenti in Italia tra “regioni ricche” e “regioni povere”.

Quale la conseguenza della radicale revisione dei principi con cui è stata regolata in Italia l’equità fiscale sul piano territoriale? I rappresentanti delle “regioni ricche” affermano che le modifiche da loro proposte sarebbero opportune per migliorare la qualità e l’efficacia delle politiche pubbliche. Ma, a parte i molti dubbi che si possono fondatamente nutrire sulle loro pretese, la questione centrale – come afferma Gianfranco Viesti in “Autonomia differenziata: un processo distruttivo (Il Mulino, n. 3/2019) – è che le “regioni ricche” chiedono le modifiche solo per se stesse. Esse non propongono una modifica della Costituzione, “volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese”, né una trasformazione dell’ordinamento regionale in Stato federale, ma solo l’attuazione dell’artico 116 della Costituzione, ovvero l’attuazione di un’autonomia fiscale a proprio esclusivo vantaggio.

Se le loro pretese fossero accolte – continua Viesti – “l’Italia diventerebbe un Paese arlecchino, un vero e proprio unicum al mondo: con quattro regioni a statuto speciale, due province autonome, un certo numero di regioni ad autonomia potenziata (ognuna con ambiti un po’ diversi) e poteri centrali con la responsabilità delle politiche e dei servizi nei ritagli di Paese residui”. Le “regioni ricche” chiedono quindi che sia riformata profondamente la struttura istituzionale dell’Italia, “lasciando il governo dei conti pubblici a un Tesoro con lo stesso debito ma con un minor gettito fiscale (una volta detratte le risorse che rimangono alle regioni) per farvi fronte”.

Le pretese delle regioni del Nord (supportate da varie stime che evidenziano in alcune di esse un’eccedenza delle entrate pubbliche rispetto alle spese e un risultato opposto per la totalità delle regioni del Sud) è infatti fondata sulla tesi che il Nord “pagherebbe” oltre ogni limite ragionevole le inefficienze del Sud; questa tesi è avanzata per giustificare, da parte delle “regioni ricche”, la richiesta di un maggior decentramento fiscale e soprattutto di una diversa ridistribuzione delle entrate pubbliche tra le regioni, in modo da ridurre, se non annullare, il residuo fiscale in tutte le regioni.

Le ragioni avanzate oggi dalle “regioni ricche” per modificare la “gestione” del “residuo fiscale” non sono riconducibili a quelle che giustificano sul piano politico i trasferimenti di risorse dagli Stati federati più ricchi a quelli meno ricchi all’interno di uno Stato federale, come quello, ad esempio, degli Stati Uniti d’America. Con un’organizzazione statuale federale, perché sia assicurata un’equità distributiva del carico fiscale sul piano territoriale, ogni Stato federato, dopo la distribuzione della spesa pubblica sotto forma di trasferimenti (o in generale di servizi pubblici) deve presentare lo stesso residuo fiscale, ma anche una convergenza economica verso la posizione degli Stati federati più ricchi; quindi, perché siano realizzate condizioni di equità fiscale e promossa la convergenza di tutti gli Stati federati verso una posizione di equilibrio delle loro relazioni economiche è necessario che lo Stato federale (cioè lo Stato sovraordinato) disponga del potere istituzionale per effettuare un intervento pubblico a favore degli Stati federati che hanno un residuo fiscale minore; intervento finanziato dagli Stati che dispongono, invece, di un maggior residuo fiscale. Tutto ciò, non solo per realizzare un’equità distributiva del carico fiscale, ma anche per assicurare agli Stati federati un funzionale equilibrio sul piano della loro crescita, in funzione di quella dell’intero Stato federale.

Nella Costituzione italiana non è fatta menzione, né del concetto di residuo fiscale, né della funzione economica ad esso assegnata (equità fiscale e convergenza economica); tuttavia, tali concetti, limitatamente all’equità distributiva, sono espressi nella Carta costituzionale in termini diversi. L’articolo 53 prevede infatti che tutti i cittadini contribuiscano alle entrate dello Stato in ragione della loro capacità contributiva e secondo criteri di progressività; mentre gli articoli 117 e 120 statuiscono che i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali siano garantiti su tutto il territorio nazionale, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. L’insieme dei tre articoli detta un principio di ridistribuzione delle prestazioni pubbliche a carico delle regioni con redditi più elevati e a favore di quelle con redditi più bassi.

Affermare che devono essere modificati i residui fiscali regionali a vantaggio delle “regioni ricche”, significa perciò mettere in discussione il dettato costituzionale; in altri termini, significa disattendere il patto sociale che lega tra loro, sul piano della solidarietà, tutti i cittadini italiani, quale che sia la regione di residenza.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI