Celeste Negarville: clandestino a Parigi

20 Marzo 2021

[Claudio Natoli]

A me sembra che Clandestino a Parigi sia un contributo importante per tornare a riflettere sulle questioni di più lunga durata, ma anche su quelle più vicine a noi della storia del PCI nell’anno del centenario. E questo anzitutto per il carattere del libro, che costituisce una fonte molto rara per la storia del partito negli anni della clandestinità.

  Per la verità la storia del PCI, si caratterizza nel suo complesso per una particolare ricchezza delle fonti memorialistiche: in particolare dalla fine degli anni ’60 e nel decennio successivo la storiografia sul PCI e sul movimento comunista, non solo acquisterà  una grande rilevanza internazionale per il contributo di alto livello scientifico offerto dagli storici italiani, ma si arricchirà anche delle memorie della generazione dei fondatori  e di alcuni dei principali protagonisti, da Longo a Secchia, da Terracini ad Amendola, ad Antonio Roasio, da Camilla Ravera a Teresa Noce, per non citarne che alcuni, e ciò in una misura che a quanto mi risulta non ha avuto eguali in nessun altro partito comunista. Molto più rari invece sono stati, in questo stesso ambito, i contributi diaristici da parte dei dirigenti, dei quadri e dei militanti politici di base. E proprio da questo punto di vista il diario di Celeste Negarville, pubblicato in Clandestino a Parigi, costituisce, come scrive nella sua bella introduzione Aldo Agosti, un documento straordinario. Esso, infatti, ci permette di seguire in presa diretta e da un osservatorio privilegiato, il periodo forse più difficile e lacerante dell’intera storia del PCI e segnatamente quella del Centro estero e del partito in Francia nella fase immediatamente successiva alla firma del patto-tedesco sovietico: una fase contrassegnata dalla rottura traumatica dell’unità antifascista, che aveva animato la “grande speranza” dei Fronti popolari, e dalla ricaduta nell’illegalità, dapprima nel contesto dell’agonia della repubblica francese durante la “strana guerra” e poi del suo crollo finale sotto l’occupazione tedesca e sotto il regime collaborazionista di Vichy. Ma vi è un secondo aspetto su cui Agosti richiama, del tutto giustamente, l’attenzione: e cioè che proprio questo tipo di fonti, a cui mi permetterei di aggiungere l’inestimabile patrimonio costituito dalle lettere dal carcere, sia il più adatto per illuminare e riportare le soggettività comuniste alla dimensione umana di persone reali, ciascuna con una propria storia e una propria individualità, ai loro contesti e ai loro percorsi di vita, al di là di classificazioni monocausali astratte e stereotipate, quando non pregiudizialmente “demonizzanti”.

  Negarville fu allora chiamato a importanti compiti di direzione nel Centro estero, alla redazione del bollettino clandestino “Lettere di Spartaco” e alla salvaguardia di quel che restava dei contatti con nuclei di militanti italiani in Francia e in Italia, e anche a delicate incombenze organizzative e logistiche nell’illegalità, in condizioni di altissimo rischio personale di arresti e deportazioni. Non deve dunque sorprendere l’assenza di ogni esplicito riferimento politico in tutta la prima parte del diario, coincidente con la permanenza di Negarville nella Parigi occupata, e nemmeno che la cifra dominante del diario siano l’isolamento e la cautela cospirativa. E tuttavia le pagine del primo quaderno trasmettono una sensazione di solitudine e di angoscia e di sgomento che sembra comunque unire la sfera politica e quella privata, pur nell’accettazione della disciplina di partito e nella continuità della propria storia e della propria “scelta di vita”. In questa condizione esistenziale sembra potersi cogliere non solo il peso dell’immane tragedia dell’occupazione nazi-fascista dell’Europa, ma anche il trauma e l’assenza di prospettive, al di là della sopravvivenza immediata, in cui il patto tedesco-sovietico e il rovesciamento del patrimonio politico e ideale legato alla stagione dei Fronti popolari erano stati travolti i partiti comunisti, privati di ogni soggettività e ridotti al ruolo di meri spettatori passivi degli eventi in corso.

  Non è una caso, a me sembra, che riferimenti politici diretti sarebbero riemersi nel diario solo dopo l’aggressione nazista all’URSS e la rinnovata svolta del movimento comunista verso i Fronti nazionali antifascisti, con la riapertura di molteplici campi di azione e di prospettive di ampio respiro politico e ideale. All’opposto, ciò che sembra prevalere per il momento è la dimensione personale di una “vita spezzata” nella lontananza e nell’assenza totale di notizie della moglie Nora e delle figlia Lucetta, nell’angoscia per la loro sorte, per le rinunce passate e presenti imposte dalla  propria condizione di “rivoluzionario professionale”, ma anche per la prevedibile definitiva rottura dei legami affettivi e familiari che agita i sogni ricorrenti del clandestino a Parigi.Ciò non toglie, tuttavia, che riferimenti politici quanto mai significativi emergano anche da alcune note solo apparentemente attinenti alla “sfera privata”: il primo è la rievocazione di un sogno che vede Nora scomparsa nel nulla, forse arrestata e deportata nella “patria del socialismo”, il che non poteva che alludere a un’esperienza che lui stesso e la famiglia avevano vissuto in prima persona a Mosca negli anni del “grande terrore”; il secondo riferimento riguarda la spersonalizzazione dei rapporti tra i compagni e soprattutto tra i dirigenti del partito, l’impossibilità di stabilire veri legami di amicizia, perché suscettibili di inquinare il primato assoluto della politica nella “vita interna” dell’organizzazione: il che alludeva al pesante clima inquisitorio affermatosi nel 1938-39 nel Centro estero del PCdI sotto la guida di Giuseppe Berti: un clima che era stato sperimentato anche dai giovani del Gruppo comunista romano (non casualmente “ripescati” proprio dalla “grande umanità”, sono parole di uno di loro, di Negarville e di Roasio), e che aveva colpito, tra gli altri, Emilio Sereni all’insegna del cosiddetto “famigliarismo” (e qui è d’obbligo il riferimento letterario a il “Il gioco dei regni”, della figlia Clara).

   E’ in questa stessa luce che è opportuno anche inquadrare l’espressa rivendicazione, in una nota di diario del settembre 1940, dello spazio che i sentimenti avrebbero dovuto occupare nella vita e nelle lotte dei comunisti: “Essere tutti tesi – vi si legge- colla volontà e coll’intelligenza, nello spazio della nostra lotta, non significa non aver cuore. Mi pare anzi che la nostra lotta acquisti una luce ancor più pura, un valore ancora più grande se si è capaci di sentire di quanti sacrifizi, di quanti dolori, di quante esistenze spezzate essa si nutre” (p. 47). In tale scenario tanto più significative e anche riferibili a questi stessi mesi appaiono le riflessioni retrospettive, affidate al diario nel settembre 1942, sulla crisi del movimento comunista seguita al patto del 1939. E’ qui che viene posta la questione, su cui Negarville afferma di avere molto riflettuto, se la politica del Comintern fosse stata giusta nel periodo della “neutralità sovietica” e se “l’identità tra URSS e movimento comunista” fosse stata non già “indispensabile” bensì “nociva” ai partiti comunisti nel prosieguo degli avvenimenti. Ricordando l’orientamento diverso assunto dal Comintern e anche da Ercoli nel primo mese di guerra, e richiamando la posizione da lui stesso allora assunta al Consiglio Mondiale della Gioventù, egli affermava che il patto di pace avrebbe dovuto riguardare l’URSS come Stato e non la rottura della politica antifascista dei partiti comunisti. E non mancava di rilevare anche gli errori di valutazione sull’andamento della guerra e sulla stabilità del patto da parte della dirigenza sovietica, nonché la crisi di credibilità che avrebbe pesato sulle politiche nazionali del partiti comunisti dopo l’aggressione hitleriana all’URSS. E’ appena il caso di aggiungere la consonanza di queste note con le posizioni assunte al confino da Umberto Terracini, che gli sarebbero costate due anni dopo l’espulsione dal partito.

  Un altro aspetto, quanto mai significativo dell’intero itinerario politico di Negarville a me sembra sia il legame profondo con l’insegnamento di Gramsci (mi ha colpito, tra l’altro, il riferimento alla tragedia personale di Gramsci in carcere, al di là di ogni inflessione retorica). E qui il punto più significativo sembra essere la centralità della cultura intesa come unità di azione e di pensiero, l’inscindibilità tra politica e cultura e l’esigenza di un’acculturazione generale delle classi lavoratrici come problema di libertà e di autodeterminazione, sia prima che dopo l’avvento della società socialista. Non sembra dubbio che Negarville, giovane operaio di Borgo San Paolo, autodidatta, avrebbe assunto sempre questo principio basilare come autentica norma di vita, dalla prima esperienza ordinovista all’università del carcere, dove acquisì una solida cultura letteraria arricchita da una non comune sensibilità musicale (testimoniata anche dal diario e dalle bellissime lettere al fratello Osvaldo, anch’egli incarcerato pubblicate in appendice); ma non meno importante sarà la attenzione costante dedicata ai problemi della cultura e al rapporto con gli intellettuali come componente essenziale del “partito nuovo” nel secondo dopoguerra, come ha testimoniato, al massimo livello, Italo Calvino. E dello stesso Calvino mi pare si possa assumere il giudizio complessivo sulla figura di Negarville, quando ha scritto di “una coscienza che si era mantenuta sempre lucida e critica di fronte a tutte le involuzioni del comunismo internazionale”, e che egli sarebbe stato “tra i più pronti a portare avanti il processo di rinnovamento aperto dal XX Congresso”, pur senza “sottrarsi mai alla regola del gioco della politica interna comunista” (p. XXIV). Vorrei solo aggiungere che proprio in questi giorni, ripercorrendone la biografia di dirigente comunista, mi è capitato a più riprese di imbattermi in un Negarville favorevole alla pubblicità del dibattito nei massimi organi dirigenti del PCI superando le barriere del centralismo democratico, una questione che avrebbe costituito anche nei decenni a venire un baluardo insormontabile e fonte di severe sanzioni nei confronti di ogni tentativo di superarlo. Tenendo conto non solo delle discontinuità e degli innegabili processi di rinnovamento segnati nella storia del PCI dal 1956, ma anche dei limiti e dei fattori di continuità e talvolta di involuzione che ne avrebbero continuato a contrassegnare la cultura politica, non considererei pertanto un “paradosso” l’emarginazione di Negarville dopo l’VIII Congresso: una sorte che del resto egli avrebbe condiviso con non pochi altri, che si erano, ciascuno con le proprie modalità, spinti troppo oltre sull’impervio cammino del rinnovamento del PCI.

Questo testo è tratto dalla presentazione online del libro Celeste Negarville, Clandestino a Parigi. Diario di un comunista italiano nella Francia in guerra (1940-1943), a cura e con un’introduzione di Aldo Agosti, Roma, Donzelli, 2020, organizzata dalla Fondazione Istituto Gramsci (Roma, 28 gennaio 2021). 

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