I capelli verdi 

1 Giugno 2020

Montehermoseñas, Cáceres. 1931 © José Ortiz Echagüe. Fondo Fotográfico Universidad de Navarra. Fundación Universitaria de Navarra. VEGAP, Madrid, 2012

[Marinella Lőrinczi]

Da quando ha varcato il portellone dell’aereo, coperta dalla testa alle ginocchia col jilbab verde, su Silvia Romano ne hanno dette di tutti i colori. Eccellono, come sappiamo e come c’era da aspettarsela, i leghisti, i fratellastri e le sorellastre d’Italia dalla mascherina tricolore, uno Sgarbi dagli occhi spiritati e dalla voce superfluamente ululante – come al solito -, i giornalisti opinionisti che anni addietro rilasciavano volentieri e gratuitamente certificati di parentela (non propria ma altrui) con il presidente egiziano Mubarak. Persone per lo più con studi superiori, che imperversano anche su facebook, twitter ecc., scrivendo a seconda dell’umore e delle svolte o degli opportunismi politici del momento, ma che non hanno quel poco tempo per informarsi, sempre in rete, cos’è e cosa rappresenterebbe questa veste verde delle donne musulmane. In fondo in fondo non gliene frega proprio niente, il caso concreto è soltanto una scusa per attaccare e mettere in difficoltà l’avversario politico, persino in un momento di pandemia devastante.

Sarebbe stato più prudente, in ogni caso, e soprattutto opportuno, se le autorità avessero preparato l’opinione pubblica in relazione al momento della prima ricomparsa in pubblico e davanti ai giornalisti della ragazza ventiquattrenne. Ma questo comunque non avrebbe nessuna importanza rispetto a cosa era diventata lei nel frattempo, dopo il suo rapimento in Kenya. C’è da sperare che ci venga raccontata, prima o poi, la storia esatta – per quel che è ricostruibile – dalla sua lunga permanenza forzata in Kenya e poi in Somalia. Avverrà? Chissà … E invece è questo che sarebbe interessante e soprattutto importante. E che spiegherebbe senz’altro anche il particolare non secondario della conversione all’islam. La veste verde ne è soltanto un’appendice.

Non possiamo ancora sapere perché questo sia avvenuto, ma speriamo di poterlo sapere un giorno. Si può invece raccontare moltissimo, in base all’esperienza diretta e alla frequentazione delle discipline umanistiche di ogni sorta, sulle vesti esterne delle donne in generale. Anche se non sono una studiosa dell’abbigliamento femminile e della sua storia, ne so abbastanza per poter elencare decine e decine di casi e di situazioni in cui donne di tutto il mondo – incluse quelle europee – si sono coperte, integralmente, parzialmente (il capo ad esempio), per quasi l’intera vita o in certe occasioni speciali, sia di gioia che di lutto, con teli o tessuti di varia natura, foggia e cromatismo. E ciò riguarda tutti, ripeto, tutti i ceti sociali. E molte situazioni sono ancora sotto gli occhi di tutti.

Certamente, sarebbe meglio affidarsi ad un trattazione sistematica. Ebbene, anche se non è un vero e proprio trattato, in rete è reperibile per lo meno quest’articolo, assai illuminante nei limiti dell’argomento trattato, e che spazia su molti continenti: https://en.wikipedia.org/wiki/Christian_head_covering (che tratta degli usi femminili di coprirsi il capo secondo le  – al plurale! – tradizioni cristiane: ortodosse, cattoliche, anglicane, luterane, calviniste, metodiste). Belle foto, e interessanti integrazioni sull’argomento, anche alla voce Headscarf (fazzoletto, foulard da testa) e alle voci analoghe, nelle quali – ma guarda, guarda, chi l’avrebbe mai pensato! – compaiono, anche se in netta minoranza, i copricapo maschili tipo kefiah, che non sono limitati alle usanze vestimentarie dei ceti sociali più bassi ma, anzi, sceicchi, principi, leaders politici arabi, ne esibiscono di elegantissimi e costosissimi. Il più bello di tutti rimane forse Peter O’Toole nel film Lawrence d’Arabia, senza però divagare troppo possiamo continuare coi turbanti, sia maschili che femminili (da ricordare la splendente Ragazza col turbante di Jan Vermeer, 1665-6; i turbanti vengono alle volte usate dalle donne europee, nostre contemporanee, dopo una chemioterapia devastante, tanto per segnalare di nuovo gli opposti, di genere e di finalità). E via via, cappelli, berretti ed altri, maschili, usati non solo per ragioni climatiche, ma come segno di ricercatezza o di potere, cioè di elevato status sociale, oppure come segno di appartenenza religiosa (ebraica, ad esempio). E perché dimenticare gli imperatori e gli alti dignitari cinesi e giapponesi? E vogliamo ricordare l’eleganza degli abiti femminili indù delle occasioni speciali, che possono includere la velatura complicata del capo? L’alta moda iraniana vanta degli splendidi abbigliamenti femminili dove si combina il pantalone col foulard. E il punto, sul piano politico e dei diritti civili, non è certamente rappresentato dal foulard. Gli esempi quindi si sprecano, ma siamo soltanto agli inizi delle esemplificazioni poiché l’etnologo, da subito, avrebbe alzato il sopracciglio tra il divertito e il professorale: da quando l’uomo è uomo (inteso come specie), la copertura e la decorazione del corpo è una costante. Ad iniziare dalla pelle, compresa quella del capo, tatuata: lo testimonia già la mummia più antica del mondo, quella di Similaun conservata al museo di Bolzano, la quale conserva i segni di un tatuaggio eseguito probabilmente per scopi curativi (antidolorifici). Ma l’estensione della pratica del tatuaggio non necessita di ulteriori esempi poiché basta guardarsi intorno; con tutte le sue implicazioni non solo estetiche ma anche simboliche, per indicare l’appartenenza a … (marinai, galeotti, bande, nonconformisti e quant’altro).

Pertanto che senso ha chiedersi, nel 2020, a proposito del copriabito verde di Silvia Romano:  “… perché una donna deve coprirsi il capo? E’ folle. […] non […] pare che l’Islam abbia proprio posizioni progressiste, sulle donne.” Come abbiamo constatato, spaziando tra i popoli, i copricapo femminili e maschili, che poi possono scendere per coprire il corpo intero, non solo abbondano ma non sono necessariamente simboli religiosi. Del resto vorrei vedere un maschio, europeo, se non si coprirebbe da testa a piedi durante l’attraversamento di un deserto, sotto il sole o durante una tempeste di sabbia, come i beduini o come i touareg “col volto velato dalla tagelmust”. E cosa dire ora di tanti ragazzi e ragazze che indossano obbligatoriamente, in pubblico, che faccia freddo o caldo, berretti da baseball o persino giacche con cappuccio calato fino sugli occhi, possibilmente scuri, oppure berretti tipo da sci, da alta montagna: a seconda del copricapo si allude alla trasgressione, all’avventura, al fare semplicemente il contrario del consueto, al pericolo e alla malavita, alla rapina, allo sport violento e alla vita militare. Ora si coprono il volto con la mascherina, ma non solo per igiene, anche per quanto detto prima: si ammicca alla vita pericolosa stando in tutta tranquillità.

Vivendo in Sardegna la domanda infastidita su cosa spinge/va le donne a coprirsi la testa è ancor più insensata perché chiunque ha visto se non altro le sfilate di Sant’Efisio. Tolta la spettacolarizzazione a beneficio dei turisti, si tratta comunque di elaborazioni vestimentarie che derivano dalla ricca tradizione. Gli esempi e le foto sono innumerevoli. Una delle più curiose è senz’altro l’abito nero di Tempio. La Marmora lo paragonava, giustamente, alle vesti delle monache e delle vedove, e quest’ultime, in moltissimi paesi, si velano ancora, come del resto le spose. Cambia il colore e il significato, ma non la foggia. Ora leggo che foggia a Firenze, nel XIV secolo, significava copricapo maschile, e nemmeno piccolino.

Delle vesti nere di Tempio si dice che ne esista una variante a Malta. Però è ancor più importante, rispetto alla Sardegna, vedere queste foto storiche, di un secolo fa all’incirca, provenienti dalla Navarra iberica.

 

Le due immagini

La prima foto ha come didascalia “El agua y el pan, 1927, Valle de Ansó (Bal d’Ansó in aragonese, una valle pirenaica) © José Ortiz Echagüe. Fondo Fotográfico Universidad de Navarra. Fundación Universitaria de Navarra. VEGAP (Visual Entidad de Gestión de Artistas Plásticos), Madrid, 2012”. La seconda foto che segue, che richiama il costume di Tempio, raffigura i trajes de agua “abiti da pioggia”. I siti di referimento di entrambe le foto sono https://www.pinterest.it/pin/477311260491532070/, https://alocosturaartesana.wordpress.com/tag/traje-popular/, https://www.pinterest.es/pin/332070172498896277/.

Nella sfera della religiosità non più solo popolare, gli abiti delle monache, le immagini della Madonna velata o coperta di manti dai colori celestiali azzurri-blu e rosati, le donne in carne de ossa, velate oppure col fazzoletto, in chiesa o in udienza al Papa, sono esperienza normale e non solo per i credenti. Non si dovrebbero spendere altre parole per abitudini tanto consolidate quanto diffuse tra i cristiani, ma qui è bene introdurre un altro argomento strettamente connesso con le coperture esterne, totali o parziali, a partire da un altro esempio celebre, la Gioconda di Leonardo da Vinci, 1503-4.

Merita però preliminarmente un accenno, e non solo perché anteriore a Monna Lisa, un altro dipinto famosissimo, amato, ammirato ed ampiamente commentato, il Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434,  firmato dal pittore fiammingo Jan Van Eyck. Nello specchio sullo sfondo si riflette la preziosa velatura della sposa. Il bel commento appena indicato contiene un dettaglio importante: il verde del soprabito femminile “simboleggia la fertilità.” Il verde indica la vitalità e lo splendore, ed è per questo che leggiamo in Dante (Purgatorio, VIII, 25-9; XXX, 32-3, dove il verde è associato al color fuoco) “e vidi uscir de l’alto e scender giùe / due angeli con due spade affocate, / tronche e private de le punte sue. / Verdi come fogliette pur mo [=appena] nate / erano in veste”, oppure:  “donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva.” Il verde è speranza, conforto, supporto. E’ per questo che il Dizionario dei simboli di J. Chevalier e A. Gheerbrant (1986) dedica al color verde ben quattro pagine fitte (II, 545-9): il verde è rassicurante, rinfrescante, umano, avviluppante, calmante, tonificante, segno della salvezza (per i musulmani), simbolo di ricchezza, è un colore benefico e via dicendo. Ed è ampiamente ancorato nella realtà della natura, quasi inutile dirlo: “Verde è il colore del regno vegetale che si rigenera …” (Diz. citato).

Nel ritratto di Leonardo da Vinci il verde della natura si trova sullo sfondo insieme, e non per caso, col verde bluastro dell’acqua, in una fusione di forme e di colori. Il capo di Monna Lisa è velato, sebbene si tratti di un velo finissimo, quasi invisibile, che copre quasi simbolicamente la capigliatura della giovane donna. Questo particolare del dipinto leonardesco segna infatti il passo successivo nel curiosare tra le pieghe e le svariate forme dei copricapi, femminili ma anche maschili, sparsi per il mondo: osserviamo, soprattutto, che la copertura non riguarda solo il capo in generale, ma la capigliature in particolare, persino se un moderno cappellino vezzoso da donna (degli anni ’50) fosse minuscolo come un piattino da caffè. In pubblico e nei momenti solenni la regina Elisabetta II non si presenta mai senza cappello, possibilmente a tesa ampia, mascolina. Ovviamente non è l’unica ad agire così, per imposizione e doveri di etichetta. Ma l’esempio è sufficiente.

Alla simbologia della capigliatura umana il Dizionario dei simboli dedica ugualmente molte pagine (I, 195-9); stranamente manca la voce Parrucca che nasconde testa e capelli, ed è quindi una capigliatura di secondo grado. Sulla parrucca, pure essa altamente simbolica, offre invece una panoramica Wikipedia. Quanto ai capelli “Il taglio e la disposizione della capigliatura [nonché la loro esibizione] sono stati sempre un elemento determinante non soltanto della personalità, ma anche della funzione sociale e spirituale, individuale e collettiva.” Questo e tantissimi altri dettagli nel Dizionario dei simboli, e si discute sia di uomini che di donne, anzi, con più insistenza sulle usanze maschili. Citiamo anche “La capigliatura è una delle armi principali della donna e quindi assume particolare importanza il fatto che sia visibile o nascosta, annodata o sciolta […]”. Sulle “armi” ci sarebbe di chiosare, sta di fatto, però, che l’esibizione della capigliatura femminile può implicare allusioni alla sfera sessuale. Può. Il ritratto di Monna Lisa è colmo di queste ambiguità, tanto più che i suoi capelli sciolti ma composti, invisibilmente velati, si prolungano nei serpeggiamenti e nei colori dello sfondo quasi completamente selvatico. Ma capelli sciolti, disordinati, scompigliati, arruffati, non pettinati – non come nel caso di Monna Lisa, molto ordinati – sono segno di lutto presso i Papua della Nuova Guinea, così come presso i cinesi o le contadine romene. Chiacchierando con la mia padrona di casa, in un villaggio settentrionale della Romania dove raccoglievo materiali, venne fuori che lei non si tagliava i capelli, perché se avesse dovuto presenziare ad un funerale di un familiare non avrebbe potuto scioglierseli.

Tempo fa ho avuto un fitto scambio epistolare con una persona che raccoglieva dati per un suo articolo riguardante un personaggio leggendario popolare dell’Alt’Italia, la Krivapeta (dal nome sloveno), una specie di fata, a metà strada o un tramite tra il mondo umano e il mondo vegetale o naturale. Questa fata, ora benefica ora pericolosa a seconda delle versioni, ha, in certe varianti della leggenda, i capelli verdi (che rimandano allo stretto rapporto col mondo naturale, boschivo). Vive, secondo le versioni slovene, in grotte, e i lunghi e scompigliati capelli verdi la ricoprono dalla testa alla cintola. Senza proseguire oltre è facile indovinarne il senso: capelli scompigliati, poco curati, quasi ammuffiti come i tronchi d’albero, contrastano coll’ordinato (potenzialmente) mondo umano, che impone ordine anche alla capigliatura. L’ordine sociale impone – anche se non sempre e non dappertutto, soprattutto non nel medesimo modo – che la capigliatura venga anzitutto curata, venga coperta (sia nel caso dei maschi e forse – ma solo forse – di più nei casi delle donne), o sostituita (con parrucche, ordinatissime e curate per definizione); queste imposizioni, nel caso dei sovrani egizi (v. il caso di Micerino, uno tra i molti), si estendevano persino alla barba – segno di virilità, ma di una virilità sia potente che controllata.

Dettagli di queste pratiche, insieme coi loro significati simbolici, si combinano in una maniera semplice, adatta alla vita quotidiana dei paesi dove è stata trattenuta con la forza, nel vituperato mantello verde di Silvia Romano.

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