Identità e Mediterraneo

16 Novembre 2013
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Gianfranca Fois

Attraverso il linguaggio l’uomo dà forma al mondo e ne viene condizionato nella sua interpretazione. Grazie ad esso si possono citare cose e persone non presenti, si può raccontare il passato e si può ideare il futuro, insomma, per dirla con Wittgenstein, è una “scatola di attrezzi”, ognuno dei quali serve a scopi diversi.Per questo motivo le parole rivestono una grandissima importanza in tutti i campi ma, in particolar modo nel campo delle scienze sociali e della storiografia, infatti il linguaggio è il luogo in cui si confronta, si valuta e si trasmette ed è fortemente influenzato, come sostiene O. Brunner, dalla situazione storica.
Un esempio di profonda riflessione sui termini usati dallo storico, e non solo, è quello offerto dallo storico Francesco Benigno nel suo libro edito da Viella: Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, presentato recentemente presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Cagliari alla presenza dell’autore.
Sono passati alcuni decenni dalla così detta “svolta linguistica” che ha modificato l’approccio a diverse discipline fra cui appunto la storia. Si tratta cioè, dice Benigno a proposito di Reinhart Koselleck autore nel 1979 di un poderoso Lexicon, della consapevolezza “del carattere intimamente discorsivo di ogni analisi sociale, strutturata linguisticamente e per lo più basata su materiali documentari anch’essi organizzati per via discorsiva……..Attraverso l’evoluzione dei concetti, i loro slittamenti di significato, la nascita di nuove parole, la trasformazione di parole in uso è possibile cogliere le trasformazioni, soprattutto quelle epocali”. A questo però oggi bisogna aggiungere la storia dei concetti usati dagli interpreti, dagli scienziati storico-sociali perché anch’essi immersi nella realtà che li circonda.
Un altro aspetto, legato comunque a questo, molto importante nella riflessione di Benigno è quello che riguarda la modernità e la sua scomparsa, interpretata in questi ultimi anni in vari modi, il che presupporrebbe una rottura da individuare.
E se per la nascita della modernità si faceva riferimento alla Rivoluzione francese e a tutto il suo apparato di concetti e di termini, ora questa frattura viene individuata nell’Olocausto. Il famoso titolo di Jonas “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” che appunto non potrà essere più quello di prima, non riguarderebbe solo l’aspetto religioso, ma assumerebbe un significato ben più ampio. E infatti l’Olocausto è la madre di tutti i traumi, alla lotta tra oppressori e oppressi si è sostituito il rapporto tra vittima(e) e carnefice e diventa “il modello implicito del trauma memoriale, replicato poi in infiniti episodi”.
Un altro aspetto ancora del dibattito storiografico è la distinzione tra storia tradizionale e storia memoriale, anche se in pratica le due modalità si affiancano, spesso si intrecciano. Infatti la storiografia classica, che si presenta riflessiva e razionale, in effetti ha contribuito a creare un discorso narrativo che legittimava e contemporaneamente creava concetti, movimenti politico-sociali, stati e chiese. La memoria invece, pur tra diverse contraddizioni, è una ricostruzione storico-emotiva che crea un nesso identitario tra il trauma originario e la vicenda successiva della comunità-vittima. Questo aspetto si incrocia col fatto che spesso avvenimenti, personaggi vengono divulgati attraverso i media non da storici ma da giornalisti, documentaristi, registi ecc. In questa spettacolarizzazione vengono saltati i nessi causali, usati dalla storiografia, per prediligere invece l’emozione, la resa filmica e infine si dà maggior spazio al passato recente spesso vissuto dagli stessi spettatori che lo ri-visitano e ri-vivendolo modificano la loro memoria.
Come si vede il discorso è estremamente complesso e profondo e stimola riflessioni e ulteriori approfondimenti.
All’interno delle parole esaminate nel saggio sono soprattutto due quelle che hanno interessato me in quanto sarda: Identità e Mediterraneo.
In questo momento non mi interessa il discorso legato al concetto di classe e come esso sia cambiato vistosamente negli ultimi decenni, ma maggiormente quello legato alla identità etnica, discorso, narrazione che comunque si intreccia anche col concetto di Mediterraneo.
Di fronte alla moderna globalizzazione, alla idea del “villaggio globale”, allo schiacciante incombere del presente, al decadere degli stati nazionali prendono vigore le “piccole patrie” che al mercato mondiale causa di paure, di disagio e inquietudine in cui tutto avviene contemporaneamente nello stesso presente contrappongono la propria identità, che corre il rischio, insieme alla memoria, di essere travolta e schiacciata.
Pertanto la costruzione identitaria mette lo studioso a contatto con la realtà in cui vive e in cui si muovono gli attori sociali e storici, eliminando così il rischio di utilizzare le proprie categorie costruite a priori e che poco si adattano a un mondo che ormai non ci si rispecchia più.
Portando il discorso alle estreme conseguenze Joel Kotkin, il più famoso geografo, ma non solo, degli Stati Uniti e che Benigno comunque non cita, afferma che è ora di liberarci dell’idea convenzionale che i confini del mondo siano decisi dalla politica, anzi in tutto il mondo c’è una rinascita di legami tribali che creano reti di alleanze globali complesse e oggi sono la storia, la razza, la religione e la cultura a dividere l’umanità in nuovi gruppi in movimento. Accanto ai grandi paesi rinascono le città-stato, ad esempio Singapore, ma le stesse Londra e Parigi hanno interessi diversi rispetto al loro hinterland o alle loro province.
In questa nuova suddivisione del mondo l’Italia appartiene alla Repubbliche dell’olivo insieme, per affinità storico-culturali e per la comuni radici greco-romane, a Grecia, Bulgaria, Macedonia e Portogallo, praticamente un altro continente rispetto al resto d’Europa.
Con la sua provocazione Kotkin ci fa protendere, non solo fisicamente, verso il Mar Mediterraneo, luogo non solo fisico ma anche simbolico e tutto sommato questo non appare una condanna.
Anzi, il Mediterraneo, a prescindere dai modi diversi in cui è stato percepito nel tempo, è oggi il luogo della differenza e del contatto, della resistenza e del rifiuto, del pluralismo di voci, corpi, storie, modi d’essere che si intrecciano, cercano di riconoscersi e alla politica limitata del soggetto/occhio contrappone la politica della ricezione e dell’ascolto come ci ricorda Iain Chambers.
E allora ci appare più profondo e lucido quel concetto di identità proposto da Placido Cherchi, non solo autocoscienza di sé ma anche interrelazione con l’altro e la centralità della lingua sarda, di cui ha analizzato le strutture portanti e le formule, nel processo di costruzione identitaria.

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