Il lavoro non è una merce

16 Gennaio 2008

Gianluca Scroccu

Le discussioni sul mercato del lavoro, da diversi anni, sembrano muoversi secondo logiche dettate per lo più dall’allinearsi su oramai sedimentati luoghi comuni, il più forte dei quali è quello della inevitabilità della flessibilità, presentata come una inclinazione oggettiva dell’economia globalizzata che bisogna, al massimo, governare. A smontare questo vero e proprio dogma contribuisce il recente volume di Luciano Gallino edito da Laterza, eloquente già dal titolo: «Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità». Sociologo tra i più apprezzati e importanti del panorama accademico italiano ed europeo, in questi anni Gallino si è sempre segnalato per le sue analisi attente e accurate, prive di facili ideologismi, sul mercato del lavoro e sul sistema industriale del nostro paese (basta ricordare titoli come «La scomparsa dell’Italia industriale», «Globalizzazione e Disuguaglianze», «Italia in frantumi»). L’autore si muove su un piano prettamente scientifico, a partire dai dati e dagli studi prodotti dai più importanti organismi internazionali e nazionali, alcuni dei quali ascrivibili al partito della “flessibilità necessaria”. Il primo dei quali è quello più eclatante: secondo Gallino, che pure ricorda la difficoltà di fare stime precise e completamente affidabili, ci sarebbero in Italia, compreso il sommerso, circa dieci-undici milioni di lavoratori flessibili. Una cifra veramente considerevole, perfettamente compatibile con il malessere che manifestano i lavoratori del nostro paese a partire dalla questione salariale (i lavoratori flessibili, come si dimostra nel libro, sono inevitabilmente legati a stipendi più bassi). È un dato, questo, che dovrebbe fare riflettere specie certe forze del centrosinistra; non a caso il leader del partito più forte del centro-sinistra, che oggi dice che una delle priorità è eliminare la precarietà, è lo stesso che divenne segretario dei DS nel 2000 sulla scia del binomio “flessibilità e internet” (purtroppo molti lo hanno dimenticato). Buona parte dell’attuale classe politica, del resto, è stata vittima e recettrice passiva di tutti i dogmi della deregulation economica che prese avvio con la rivoluzione conservatrice e iperliberista di Reagan e della Thatcher degli anni Ottanta; priva di riferimenti ha puntato tutto sul post-industriale e sulla retorica di una globalizzazione neutra che ha fatto scomparire il lavoro e i lavoratori come soggetti sociali del discorso pubblico, per poi accorgersi che esistono solo in occasione di stragi come quella della Thyssen-Krupp. Così come è un dogma non dimostrato quello per cui la flessibilità sarebbe un potente fattore di moltiplicazione dell’occupazione; una prospettiva su cui, con dieci anni di ritardo, si è dovuta ricredere pure l’OCSE, testimoniata anche dal fatto, ricordato da Gallino, che il tanto celebrato aumento di un milione di posti di lavoro tra il 2001 e il 2006 deve essere ascritto non alla deregolazione del mercato del lavoro, ma piuttosto alla regolarizzazione dei lavoratori immigrati. La flessibilità, per l’autore, più che una legge economica è una scelta “politica” attuata dai governi e che certo non dispiace a buona parte del mondo imprenditoriale, specie quello che cerca di diventare grande grazie alla Borsa. Un valido escamotage per liberare il capitale dai vincoli a cui l’aveva costretto il movimento dei lavoratori, anche grazie al principio che si produce e si occupa la forza lavoro solo sulla base della domanda del momento, ossia il cosiddetto “Just in time”. E dire che un grande giuslavorista come il compianto Massimo D’Antona, assassinato ferocemente dalla nuove BR, commentando il protocollo del 1993, scriveva che «l’idea che quote aggiuntive di flessibilità nelle tipologie dei posti di lavoro possano produrre occupazione è palesemente ridicola». Concepire il lavoro come merce, il vero corollario della flessibilità, significa quindi, per Gallino, separare il lavoro dalla persona stessa del lavoratore, il quale diviene così un qualcosa che si può scambiare nel mercato come se fosse un semplice oggetto inanimato. Questa mercificazione del lavoratore (la cui prima tappa, secondo Gallino è da ricercare nella firma del protocollo d’intesa tra governo, sindacati e imprenditori nel luglio del 1993, seguita dalla legge 196 del 24 giugno del 1997 nota come “Pacchetto Treu”, per arrivare alla vera e propria moltiplicazione dei lavori flessibili sotto i governi Berlusconi con il decreto legislativo n. 368 del 6 settembre del 2001 sino alla famigerata legge 30 del 2003, nota come “Legge Maroni” e il suo decreto attuativo n. 276 del medesimo anno) ha portato ad un sempre più drammatico restringimento dei diritti di cittadinanza e ad una precarietà esistenziale dei lavoratori che ne pregiudica il futuro (si pensi solo alle aspettative previdenziali). Disillusi e parcellizzati, i lavoratori perdono la loro capacità e la loro forza come agenti attivi di coesione sociale e politica: sparisce la capacità di orientare le proprie richieste su una visione comune e predomina l’illusione che la politica sia sostanzialmente tutta uguale. Il lavoro a tempo indeterminato diventa patrimonio di una elite di lavoratori, e i lavori decenti saranno, come sostiene l’OIL, sempre più a numero chiuso e si allargherà in maniera sempre più drammatica la forbice salariale. Chi non può più negare i costi sociali e umani della flessibilità chiede di attuarne una versione “dal volto umano”, racchiusa nella formula della cosiddetta “Flessicurezza”, ossia la possibilità di perdere il proprio lavoro compensata dal fatto che il sistema ne garantisce in tempi brevi uno nuovo (esemplare in tal senso il modello danese, che se per Gallino non ha accresciuto il tasso reale di occupazione di quel paese, ha tuttavia garantito un livello di sicurezza e protezione sociale di fronte alla prospettiva della disoccupazione non riscontrabili in altri paesi europei). Peccato che chi ne vorrebbe trapiantare il modello anche in Italia dovrebbe garantire misure previste da quel sistema come un’indennità di disoccupazione molto generosa, ottimi e funzionali programmi di formazione e addestramento professionale, concreti programmi di assistenza alla prima infanzia; tutte misure che richiedono svariati miliardi di euro che non sarebbero difficili da reperire sul piano delle mere risorse, ma che appaiono sinceramente fuori da ogni discussione di questa politica tutta presa dalla paura della spesa pubblica oltre che ossessionata dalla tassazione elevata (non a caso, come ricorda l’autore, il totale dei contributi obbligatori in Danimarca tocca il 50% del PIL, l’Iva sui consumi è al 25% e l’aliquota marginale sul reddito è al 63%). Misure inevitabili, se si vuole una flessicurezza efficace, ma in Italia, come scrive Gallino, questo aspetto della proposta danese viene messa in un cantuccio a favore della assai più debole offerta degli “ammortizzatori sociali”. L’autore parla giustamente della flessibilità come comodo alibi che permette di evitare ogni discorso sulla cultura d’impresa, sull’investimento in ricerca e innovazione, sulla formazione dei lavoratori, le privatizzazioni mal concepite e l’incapacità di investire in settori forti come l’aeronautica e l’informatica. E benché i cantori della flessibilità inevitabile siano anche quelli del merito e delle opportunità, non sono ancora riusciti a spiegare come mai in Italia si sia arrestata, proprio in coincidenza con l’avvio della precarizzazione e della mercificazione del lavoro, quella mobilità sociale che aveva ridotto le disuguaglianze tra le classi sociali nei decenni precedenti. Sconfiggere questa politica è possibile su un piano globale rideterminando il profilo della democrazia nell’era della globalizzazione e mettendo al centro il lavoro e i lavoratori come valore sociale e non più come merce; in Italia, come ricorda Gallino, basterebbe richiamarsi alla nostra Costituzione, la cui attualità proprio su questi temi, a sessant’anni dalla sua promulgazione, è sempre più forte.

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