Importanza e ruolo della storia generale e locale

2 Novembre 2023

Un murale ad Ales di Jacopo Cau

[Francesco Casula]

Una società (e una civiltà) tutta concepita e vissuta sull’hinc e nunc (Qui ed ora) e su  un apprendimento solo orizzontale e viepiù appiattito, soprattutto sulla rete, in cui si naviga di link in link e quindi viene meno quell’approfondimento verticale  che è alla base di ogni conoscenza, considera ormai la storia un utensile inutile e inservibile.

   La pensa così anche la politica: nel 2022 il governo, nel quadro della sua più volte conclamata «nuova attenzione alla scuola», ha deciso di eliminare dalle prove dell’esame di Stato il tema di storia. In tal modo la storia viene declassata a cenerentola delle discipline scolastiche, se ormai la società civile nel suo complesso ritiene possibile farne a meno, come sembra non solo dalla recente decisione governativa, ma anche da moltissimi altri segni che vanno appunto dalla scuola all’editoria e alla vita civile in genere.

   Evidentemente non comprendendo che senza memoria storica le società, e in particolare la nostra moderna società occidentale, siano candidate alla autodistruzione. Se non a quella fisica: certamente a quella morale e culturale.
   La storia infatti serve certo a conoscere il passato: ma in funzione del presente e nella prospettiva del futuro. Davanti alle grandi crisi che ci aspettano e che dovremo affrontare, (dalle guerre alle disuguaglianze crescenti, territoriali e sociali, al riscaldamento del pianeta e alla questione energetica), se non si hanno modelli desunti dal passato su cui riflettere non si può costruire nessuna ipotesi di sviluppo nel presente e nel futuro.
   La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo, è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni tipo di rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.

   “Il lavoro degli storici, il cui compito è ricordare ciò che altri dimenticano, è ancora più essenziale ora di quanto mai lo sia stato nei secoli scorsi”: nel suo lavoro più conosciuto Il Secolo breve, Eric Hobsbawm, il grande storico inglese, parlava così. Erano gli anni Novanta, e si iniziava a fare i conti con quel secolo breve che stava cambiando radicalmente, secondo lo storico, il modo in cui l’uomo si relazionava al progresso e al proprio futuro.

   La necessità palesata da Hobsbawm è oggi passata sotto silenzio: scegliere di privare i giovani degli strumenti essenziali di lettura della realtà storica vuol dire privarli della possibilità di scegliere e determinare il loro futuro. La storia infatti è il presente che in qualche modo è già stato sperimentato, analizzato e vissuto: senza di esso, siamo come ciechi senza una guida. la storia serve a impadronirsi sempre più della nostra vita presente e futura; la storia serve a farci sentire e ad essere in realtà più liberi.
   Dunque la storia non serve soltanto a divenire un po’ più colti, quindi un po’ meno ignoranti. Serve per saper “leggere” e interpretare la realtà, i fatti gli accadimenti: a tal fine la storia, che già per Cicerone era magistra vitae, non costituisce una semplice raccolta di fatti, date o nomi noiosissimi da imparare, come le genealogie dei carolingi o merovingi o il numero di battaglie vinte da Napoleone e Cesare o le date esatte di una serie indefinita di eventi: insomma l’equivalente di un concorso a quiz.

   Al contrario la storia serve per conoscere il passato del mondo, la sua struttura geografica, gli eventi sociali, l’arte e la religione, la filosofia, l’economia, le scienze.

   Liberissimo il governo di ritenere che i ragazzi debbano studiare solo cose utili. Ma, chiediamoci, utili a chi? Utili a che cosa? Utili a tranquillizzare le scarse e distratte opinioni delle famiglie che spesso vogliono inserirsi nei programmi scolastici senza capirne un accidente? Utili forse ai ragazzi stessi, molti dei quali sembrano credere che, nelle migliori delle ipotesi, si va a scuola solo per cercare di imparare un mestiere più redditizio, qualcosa che serva a far subito soldi?
   Ma allora se la storia è inutile, magari come il greco o il latino o la musica e l’arte, o la poesia e la letteratura, che cosa mai sarà utile? L’inglese? L’informatica? O quale altra materia?
   La verità è che la scuola non può essere impostata in modo utilitaristico, né secondo le mode e i gusti e le mode del tempo, ma deve essere impostata in modo formativo.. 

   Dobbiamo essere consapevoli che la storia, il passato non è mai del tutto passato ma è ancora e sempre presente, nei suoi riverberi nell’oggi. E comunque la storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale.

   Sostiene Umberto Eco nel suo monumentale romanzo L’Isola del giorno prima: “Io sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo”. Mentre Benedetto Croce a chi gli chiedeva cosa sia il carattere di un popolo rispondeva che “Il carattere di un popolo è la sua storia, tutta la sua storia”. Parole non nuove – ricorda Corrado Augias in I segreti d’Italia – più volte ripetute, fra gli altri da Ugo Foscolo, che nell’orazione inaugurale all’Università di Pavia (22 gennaio 1809) conosciuta con il titolo Dell’origine e dell’ufficio della letteratura ammoniva: “Vi esorto alle storie…”

   E l’afgano Khaled Hosseini, nel suo primo romanzo di grande successo Il cacciatore di aquiloni, scriveche: “Non è vero come dicono molti che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente”.

   E dunque, se non è una scempiaggine, è per lo meno un’ingenuità ritenere che il passato sia passato del tutto o stia sepolto o per lo meno fermo nella teca del tempo. Al passato, anche il più gravoso, – certo se ne abbiamo la forza e la capacità – può essere restituita energia, fino a farne sprizzare fuori qualcosa di utile non solo per il presente ma anche per il futuro.

   Se tutto questo discorso vale per la storia generale è ancor più valido per la storia locale, per la nostra storia sarda: infatti un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e specificità, come individui e come comunità.

   E fortunatamente, dopo interi secoli di riserve e, spesso, di vera e propria insofferenza nei confronti della “storia locale” anche in Italia – sia pure in ritardo abissale rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, per esempio – si sta superando il paradigma storiografico secondo il quale solo la “storia generale” è degna di essere studiata.

   Soprattutto in seguito alle significative posizioni di storici come Marc Bloch e Lucien le Febvre con la creazione nel 1929 degli Annales e con il pensiero di Fernand Braudel, la storiografia più avveduta supera e rifiuta la storia come grande evento politico-militare o la storia riservata solo ai cosiddetti “grandi” (imperatori, re, papi, generali), rivalutando la storia locale che si pone anzi come “laboratorio“ della nuova concezione storiografica, secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale.

   Così oggi la storia locale ha acquisito un ruolo importante e stabile e “la storiografia – è lo storico Franco Catalano a sostenerlo – si è liberata dalle innaturali concezioni che celebrano la grande storia“, per cui la “nuova storia“ oltre che abbattere le vecchie recinzioni storiografiche, per una storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo e nello spazio, indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio.

   Ma non di questo solo si tratta: l’impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale – ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda – ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare:

1. La smemorizzazione.

Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma espunta, cancellata.

2. L’omologazione e la standardizzazione.

I giovani soprattutto, sono oggi appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli in cui quelli di Cagliari non sono molto diversi da quelli di Detroit.Una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.

   Concludo, a conferma dell’importanza e del ruolo della storia locale, della storia sarda, citando un grande scrittore sardo, medico, scomparso nel 2020, Giorgio Todde, pluripremiato e tradotto in una decina di lingue. In Il mantello del fuggitivo scrive ”Nessuno può sfuggire al proprio passato e se una comunità non sa riconoscere le proprie radici accadono disgrazie. Il principio spirituale di un luogo rappresenta un’essenza che ha impiegato decenni, secoli, millenni a costituirsi. Non possiamo cancellarlo, ci si ammala. Lo dobbiamo conservare e ripetere. Quest’anima si costruisce lentamente, di generazione in generazione, viene da lontano nel tempo, ha perfino una sua ereditarietà.

   La prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è in gran parte un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo è ben fatto l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato.

   Ma se di quell’abito dismesso ci vergogniamo e lo buttiamo allora ci mettiamo addosso altri abiti, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo. E crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altrove.

   Si può persino nascere lontano, ma essere legati al luogo dove è nata la nostra gente. Perché i luoghi, anche senza averli mai visti sono incisi dentro di noi attraverso i nostri geni”.

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