Irene Testa: “Le carceri stanno esplodendo”

18 Luglio 2025
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

[Valter Canavese]

Di persone recluse, istituti di detenzione in Sardegna e, più in generale, dei temi che emergono nel mondo penitenziario in Sardegna, ne abbiamo parlato con Irene Testa, Garante regionale delle persone private della libertà personale all’indomani della presentazione della relazione sulle carceri in Sardegna relativa al 2024.

Da sempre impegnata nei diritti civili, anche per l’estrazione politica che la vede da anni nel partito Radicale, la garante traccia un quadro con molte ombre – in Sardegna c’è un sovraffollamento della popolazione carceraria dell’83% – e ben poche luci.

Dottoressa Testa c’è un riferimento normativo e di prassi comune a tutti i Garanti regionali delle persone detenute?

No. Oggi ci troviamo ad avere tante leggi in ogni regione diverse. Ogni garante regionale opera a seguendo le indicazioni della rispettiva legge regionale e questo vale anche per i garanti comunali. Non c’è a livello nazionale una normativa che coordina le attività dei garanti. Ognuno svolge il ruolo a seconda di come interpreta la legge, però ci sono chiaramente dei doveri a cui bisogna attenersi, come le relazioni annuali.

La gravità oggettiva e reiterata della condizione delle persone detenute in Italia è stata sancita sia sotto il profilo amministrativo contabile con la relazione della Corte dei conti e sia attraverso le numerose condanne impartite all’Italia da parte della Corte europea dei Diritti per l’uomo.

La situazione è paradossale. Questi importanti organismi denunciano rilievi che non portano a nessun tipo di reazione. Né la lunga lista di denunce come la recente condanna della reclusione di un ragazzo con problemi psichiatrici detenuto a Sassari, con l’unico risultato che invece di trasferirlo in una comunità è stato spostato nel carcere di Bancali. Sui rilievi della Corte dei conti che sollecita il governo a risolvere il dramma del sovrappopolamento, abbiamo una doppia problematica legata a tempi imprecisati sulla costruzione di nuovi blocchi, blocchi che mantengono l’invivibilità data dai progetti, oppure una soluzione “più veloce” data dalla installazione di blocchi container vicini o attaccati agli istituti con costi che aumentano in maniera spropositata. Un’ipotesi del genere nasconde sotto il tappeto un problema evidente. Se già adesso il numero delle guardie carcerarie è molto insufficiente, questi nuovi blocchi o containers da chi saranno sorvegliati?

Quale condizione vivono le detenute donne e le persone della comunità LGBTQIA+?

Le donne detenute sono poche. In Sardegna, tra il carcere di Bancali e quello di Uta sono circa 40, ma è un numero che varia a seconda dei mesi. Alcune vivono dietro le sbarre con patologie psichiatriche, molte sono persone con dipendenza. L’attenzione e gli sforzi si concentrano prevalentemente verso la popolazione maschile a partire dalla presenza dei medici, dall’organizzazione e dalle scarse attività ricreative. Anche questa separazione radicale tra uomini e donne fa sì che l’intero sistema penale non faccia nessuno sforzo per tentare soluzioni diverse. Se poi si considera che le donne non rappresentano neanche il 4% della popolazione reclusa, si dovrebbe favorire quanto più possibile il ricorso a misure alternative. Nel caso di persone LGBTQIA+ i numeri sono ancor a più esigui e anche per questo è necessario, sempre nell’ambito delle misure previste, strumenti normativi alternativi al carcere.

In due anni e mezzo lei ha effettuato oltre un centinaio di sopralluoghi negli istituti detentivi in Sardegna evidenziando le gravi condizioni delle persone recluse. Quali sono le criticità più evidenti e le buone pratiche?

Il primo problema conclamato è il sovraffollamento delle carceri legato a condizioni insostenibili. Quattro persone per cella, un caldo insopportabile, poca acqua da bere e per le docce. Condizioni di degrado acuite da una assenza di attività in carcere. Il tempo per lo più si passa in branda, con percentuali di persone che presentano problemi psichiatrici importanti. Nel carcere di Bancali il rapporto al 31 dicembre 2024 rilevava che 400 persone su 536 fanno uso di psicofarmaci. Questo significa che c’è un disagio molto importante, con un numero di psicologi molto al di sotto delle reali necessità. Non c’è nessun tipo di coordinamento tra le ASL e i garanti. Un garante deve essere autorizzato dal detenuto per poter visionare la cartella clinica, con tempi burocratici che danneggiano una efficace presa in carico da parte del sistema sanitario. Il passaggio della Sanità alle Regioni ha acuito i problemi laddove prima l’assistenza faceva capo al Ministero della Giustizia. Ci vuole un maggiore raccordo tra le istituzioni e in questo senso diventa importante potenziare il tavolo di concertazione dell’Osservatorio della Sanità sulle carceri con riunioni periodiche che possano stabilire gli interventi.

In tema di misure alternative le comunità agricole in Sardegna hanno dato un ottimo risultato-

Vero, in Sardegna abbiamo un modello unico e da imitare un po’ in tutta Italia. A mio avviso tutti i detenuti che si trovano nelle aziende agricole migliorano sensibilmente la loro condizione, sotto l’aspetto psicologico dell’apprendimento di un lavoro che potrà tornare utile a fine pena, con la possibilità di mettere un po’ da parte del denaro. È una detenzione completamente diversa, raramente capitano evasione, rientrano in cielo per dormire per mangiare dopo che finiscono il turno lavorativo ma tutto il giorno solo impegnati da lavoro e questo chiaramente aiuta a vivere una detenzione sicuramente migliore rispetto a un carcere chiuso anche come ci indica la costituzione e il diritto. Ci deve essere la possibilità di investire in questa misura detentiva per estenderla quanto più possibile con innegabili vantaggi sia per le persone sia per la società.

La sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 ha riconosciuto il diritto all’affettività in carcere dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia. Negli istituti in Sardegna cosa sta succedendo a riguardo?

Tra i vari colloqui con le istituzioni ho potuto constatare come il Provveditore abbia attivato un’azione concreta affinché tutti gli istituti presenti nell’isola possano avere una sala. La possibilità di mantenere un livello minimo di affettività con la propria famiglia è importante sia per i parenti stessa che per il detenuto. Il Provveditore mi diceva che stava pensando di predisporre delle casettine in prossimità delle strutture.

Sono stati avviati i lavori nel carcere di Uta per l’ampliamento della sezione per i detenuti reclusi ai sensi dell’art. 41 bis. Quali sono le implicazioni a suo avviso?

Ci sono già sufficienti problemi che si aggraveranno con la presenza di altri cento detenuti.  La Sardegna ha già una presenza rilevante di detenuti ai sensi del 41 bis. Si ipotizza che i nuovi settori siano pronti con l’inizio del prossimo anno. Tra l’altro c’è anche poi l’aspetto dei familiari di queste persone e dei loro figli che sono costrette a intraprendere viaggi costosi e scomodi. Teniamo conto che nell’isola abbiamo più di mille detenuti, tra Alta sicurezza e 41 bis, che non sono sardi, e anche questo incide sulla difficoltà di gestire gli istituti di pena in Sardegna.

Qual è la situazione dei familiari dei detenuti?

Ci sono periodi in cui il carcere di Uta presenta molti problemi di prenotazione degli incontri. Con una certa cadenza non si riesce a prenotare i colloqui. Il problema si evidenzia soprattutto a Uta e lo abbiamo segnalato moltissime volte. Ricevo tantissime richieste di familiari che si lamentano. La responsabilità è del numero insufficiente del personale e dei problemi di ordine tecnico del centralino, si spera, in via di risoluzione.

Il DDL Sicurezza 1660, ora Decreto-legge 84, ha introdotto nuovi reati anche per le proteste nelle carceri. Quali rischi intravede?

I nuovi reati non faranno che peggiorare lo stato della detenzione. Un detenuto che fa uno sciopero della fame, quindi un’iniziativa non violenta, può essere accusato rientrare nella rivolta? Abbiamo condizioni di detenzione gravi, con delle inadempienze da parte dello Stato condannato dalle sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. È sbagliato far ricadere questa responsabilità su chi reagisce a condizioni impietose. Credo che i dubbi sollevati da più parti dal mondo giudiziario, politico e sociale sul complesso di questo Decreto abbiano delle motivazioni più che fondate.

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