L’abbraccio dei miti

1 Febbraio 2009

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Joan Oliva

Qualche anno fa, in un articolo sul Manifesto, Uri Avnery, paragonava la resistenza di Jenin a quella di Masada e parlava di miti che fondano le nazioni. Quel ragionamento vale ancor di più oggi dopo l’assedio di Gaza, il massacro di civili, le distruzioni e il terrore che sembrano non aver annientato la disperata resistenza dei palestinesi. Effettivamente parrebbe che, mentre il governo israeliano è intento a sottrarre al popolo palestinese la terra, i palestinesi stanno sottraendo al popolo israeliano i suoi miti. Anagraficamente sono figlio di tanti sradicamenti. I miei antenati si sono mossi in su e in giù,  sulle sponde del Mediterraneo. Sardi-liguri-napoletani-piemontesi. Profilo semitico, non sono disposto a scommettere un centesimo d’euro sulla mia purezza razziale italica. A diciotto anni, alla visita militare provocai l’indignazione del sottoufficiale che compilava la mia scheda chiedendomi a quale confessione religiosa appartenessi. Nessuna, risposi.  Sono in qualche modo un  trapiantato. Sento di essere in debito nei confronti di tanti grandi e piccoli figli di Israele. Da adulto ho ritrovato nella lettura dei Libri della tradizione ebraica uno dei percorsi che mi ha riportato alla realtà (come diceva Martin Buber). Il 2 settembre del 2001 ad Alghero, mia città natale, ho partecipato come relatore alla celebrazione della 2. Giornata Europea della Cultura Ebraica. Ho una zia che vive da cinquant’anni in Medio Oriente, vicina alle zone calde del conflitto e alle vittime. Per queste e per tante altre ragioni mi sento molto coinvolto dalle tragiche vicende che vedono contrapposti il popolo israeliano e quello palestinese. Il pericolo che incombe oggi su Israele non è evidentemente la sua distruzione, ma piuttosto la sua temporanea confusione, la profonda “demoralizzazione” conseguente all’impossibilità di continuare a testimoniare, con voce forte fra i popoli, ciò che è giusto. La perdita di autorità morale paventata anche da alcuni suoi dirigenti. La sicurezza ricercata con la violenza dei carri armati, con la logica e gli strumenti spietati della guerra, costringe un popolo di cosmopoliti “untori” di valori universali in una angusta prigione e in un ruolo meschino e crudele che non gli è congeniale. Guai a chi umilia i figli del popolo presso il quale vive e con il quale condivide l’amore (antico o recente) per la stessa terra. Come si può squarciare e ripartire salomonicamente la terra? Per possederla morta? E’ vero, non bisognerebbe teologizzare il conflitto. Ma a me viene spontaneo chiedermi: Giacobbe – Israele può oggi, in cambio magari del dominio sulla terra, rinunciare alla primogenitura, peraltro acquisita non per nascita?  E ancora: il popolo d’Israele può in un catastrofico rovesciamento di ruoli assumere, in questa vicenda storica, alcuni dei tratti dei  popoli che nella sua millenaria epopea ha incontrato e lo hanno perseguitato o contro cui ha combattuto? Rileggo in questi giorni Uri Avnery, nel suo datato libro “Israele senza sionisti”, e trovo che riferimenti al  personaggio di Sansone erano frequenti nei giorni della lotta per la nascita dello Stato di Israele: si pensi per esempio a parole d’ordine come “Sansone e Dalida” (usate dai gruppi clandestini) o titoli onorifici come “Le volpi di Sansone” (attribuiti a quanti si erano distinti in combattimento).  Catturato con l’inganno, nel sonno, ridotto all’impotenza, accecato e incatenato, sbeffeggiato durante una festa dei suoi nemici, a Sansone non rimane che seminare la morte immolando se stesso, uccidendo, si narra,  con quel gesto più nemici di quelli che aveva fino ad allora ucciso in battaglia. Questa figura, campione di forza e  indomito lottatore fino all’estremo sacrificio, esaltava evidentemente i combattenti israeliani di allora che si sentivano disposti a tutto per dar vita al proprio Stato nazionale. Oggi rappresenta ciò che più terrorizza gli israeliani perchè tragicamente proprio Sansone è stato assunto come mito da emulare fra le fila dei combattenti palestinesi.  Non nel Corano i palestinesi trovano il riferimento al combattente suicida ma proprio nel libro dei Giudici! E’ strano, ma mi sembra che nessuno abbia fatto questa considerazione. E’ sotto gli occhi di tutti l’immagine dei ragazzi palestinesi  armati di pietre che affrontano l’esercito israeliano. Quegli invincibili carri armati sembrano materializzare la figura del gigante Golia affrontato dalla spavalderia giovanile di un pastore armato della sola fionda.  Da qui forse tutta la rabbia che ha portato, prima del precipitare degli eventi in carneficina, ad uno stillicidio di giovanissimi uccisi dai militari israeliani nell’atto di lanciare pietre? La stessa diaspora, con tutte le sofferenze che essa si porta, è una prova a cui da molti anni sono sottoposti alcuni milioni di palestinesi, profughi disseminati per il mondo.  Sembra che molti di loro conservino le chiavi di case che vorrebbero tornare ad abitare, come si narra fecero per generazioni e generazioni, gli ebrei scacciati dalla Spagna nel 1492. Il verso del  poeta palestinese Mahmud Darwish: “il mio paese è una valigia” rinnova il ricordo delle innumerevoli e frettolose fughe di fronte all’avanzare dell’intolleranza. Esperienza straziante vissuta dal popolo ebraico in un arco di tempo millenario soprattutto in Europa. Qual’è il prezzo che i palestinesi debbono pagare per conquistarsi il diritto di vivere alla pari con gli israeliani? Sarà forse una sofferenza come quella accumulata per generazioni dagli ebrei? Ingiustizie, discriminazioni, umiliazioni e atrocità (come quelle che si sono consumate in alcuni posti di blocco), assedi dei ghetti (che oggi chiamiamo campi profughi), bombardamenti e distruzioni per fiaccarne la resistenza, scrupolosi rastrellamenti casa per casa, eliminazioni mirate e massacri indiscriminati per rappresaglia. Basteranno? I palestinesi sono oggi messi alla prova. E la loro sembra, per certi versi, una risposta per imitazione. (Nelle manifestazioni dei palestinesi dei “territori occupati” si sono visti alcuni che indossavano delle casacche a righe come quelle dei lager). Da troppo tempo i due popoli si conoscono e si studiano. In un certo senso si può affermare che il modello dei palestinesi è oggi proprio Israele: i palestinesi sono oggi “il popolo di Israele” e i loro bambini sono “i figli di David”.  E non solo per imitazione. “I contadini della Palestina sono i discendenti degli abitanti dell’antica Giudea “; su le Monde Diplomatique di settembre 2008 lo storico Shlomo Sand, docente all’Università di Tel Aviv, ci ricorda che questo fatto era ben noto agli intellettuali sionisti fin dai primi decenni del ‘900. E se nonostante tutto, nella generale disperazione, un piccolo resto di irriducibili combattenti continuerà a manifestare la propria caparbia identità, voglia di libertà e autodeterminazione, magari  ricercando forme sempre più terrificanti di testimonianza e lotta,  si passerà allora alle deportazioni in massa?  E se ciò ancora non bastasse quale sarà l’ultimo gradino della violenza? Sarà la guerra totale di sterminio? Sarà l’olocausto atomico (invocato da un ex ministro) l’opzione estrema di un  governo di salvezza nazionale israeliano per risolvere il problema palestinese? Non credo proprio che fosse questa la  “normalizzazione” auspicata dai padri fondatori dello Stato di Israele: un popolo come gli altri,  capace di muovere guerra e di opprimere, capace di seminare la menzogna e il terrore, capace di commettere crimini contro l’umanità, di annientare i propri fratelli ritrovati?  Quanto tempo ci vorrà e quante altre morti prima dell’abbraccio fra i miti? Il conflitto nella terra amata e contesa fra due popoli che hanno tante cose in comune e che forse sono o forse sono destinati a riconoscersi come un unico popolo,  porta ad una profonda confusione e  non solo di quelli che sono direttamente coinvolti nella carne. Grazie a tutti quei figli  di Israele e Palestina che vivono operando per la giustizia (e quindi per la pace). Grazie Zvi Schuldiner, grazie Uri Avnery in voi ritrovo il coraggio di chi  nomina, senza ipocrisia, le cose con il loro nome. Nel leggere le vostre testimonianze riconosco ancora in voi dei “fratelli maggiori”.

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