La filosofia spicciola di “Pepe”

14 Maggio 2025

[Gianni Loy]

Non che sia una bella notizia. La morte, quando non provoca dolore, quantomeno evoca tristezza, rimpianto.

Eppure, nell’affacciarmi alla finestra di una giornata che – come le più, del resto – promette solo echi di guerre “lontane” che ci desolano, apprendo della morte di una persona che non conosco. Ed il ricordo di lui mi è dolce, produce tenerezza, restituisce senso alla vita, persino un filo di speranza, di quella speranza capace di sopravvivere ai sepolcri.

Perché l’esperienza terrena di “Pepe”, perlomeno, mi fa credere che una maniera alternativa di interpretare la vita sia possibile; che sia possibile anche una società ispirata a principi alternativi a quelli che ci governano e che, ahinoi, si sono impossessati delle nostre menti.

“Pepe”, sin dal principio, ha creduto a valori di libertà, di giustizia, di uguaglianza, insomma a quei principi che tutti celebrano, che le Carte costituzionali esaltano, ma che raramente vengono messi in pratica. “Pepe” ha creduto che è dovere di ciascuno – quando la contingenza si presenta – combattere il male.

Così, già da ragazzo, ha risposto alla dittatura con la ribellione contro gli affamatori. Lo ha fatto ispirandosi al ricordo dell’insurrezione, eterna, di un popolo – quello indigeno – decimato nei secoli, nel nome di Nostro  Signore. E nella storia di quel popolo, piuttosto che nella complicata geografia delle più moderne sinistre rivoluzionarie, ha trovato il fondamento dell’insurrezione a cui lo chiamava la propria coscienza, richiamandosi all’esempio di Tupac Amaru. Per quanto la genealogia gli ricordasse altre origini.

Guerriglia urbana, lotta contro il tiranno. E lunghi, lunghissimi anni di prigione, dura e patogena, prigioniero ed ostaggio perché minacciato di dover pagare con la vita le azioni di guerriglia dei suoi compagni di lotta ancora liberi.

Eppure, è bello ricordare “Pepe”, perché alla fine – come non sempre capita – quella lotta ha pagato, e la democrazia, almeno quella, è tornata a governare un paese che ha vissuto momenti di pace e di progresso. Con grande attenzione ai diritti civili ed ai diritti dei lavoratori. A proposito di questi ultimi posso testimoniare l’elevato livello di cultura giuridica espresso dagli intellettuali di quel piccolo paese sudamericano.

“Pepe”, con la predicazione e con la pratica, è stato artefice di quel piccolo miracolo. Quando è diventato presidente di quella Repubblica, ha dato un esempio che non ci saremo aspettati.  Purtroppo, perché nasconderlo, abbiamo assistito, in quel vicinato, all’insediamento di altri “comandanti” rivoluzionari che, dopo aver abbattuto il dittatore, si sono seduti nel loro scranno ed hanno tradito le nostre speranze di liberazione.

Lui no! “Pepe”, prima di tutto, ha continuato a vivere, modestamente, in una casa di periferia; a trasferire ai bisognosi quanto del suo appannaggio di presidente non gli era indispensabile per vivere dignitosamente. Cioè si accontentava di poco.

Soprattutto continuava a predicare e a praticare, la filosofia morale ed economica elaborata negli anni della sua militanza. Una filosofia semplice, comprensibile a tutti. Il concetto di sobrietà, in alternativa allo spreco, ma anche all’austerità; la concezione di povertà. Persino l’inutilità della riduzione dell’orario di lavoro, se non si riesce ad estirpare il tarlo consumistico che ci divora il cervello. Il valore dell’ambiente e il concetto di felicità.

Una volta diventato presidente, e questo è il bello, e con il bello la speranza, ha continuato a predicare immutata la propria dottrina, rivolgendosi, con le stesse parole, sia al campesino come ai potenti di tutto il mondo.

La sua dottrina morale, sociale, economica, non ha bisogno né di traduttori né di interpreti.  È chiara, comprensibile, sintetica, ci pone delle domande. Non necessita neppur commenti. Basta leggere il testo del suo “memorabile” intervento all’Assemblea plenaria delle Nazioni Unite svoltosi il 20 giugno del 2012 a rio de Janeiro:

“Autorità presenti, di tutte le latitudini e organismi, grazie mille. Grazie mille al popolo del Brasile e alla sua Signora Presidente. E grazie mille alla buona fede che, sicuramente, hanno manifestato tutti gli oratori che mi hanno preceduto. Esprimiamo la intima volontà come governanti di sostenere tutti gli accordi che questa nostra povera umanità possa sottoscrivere. Permetteteci però di fare alcune domande a voce alta. Tutto il pomeriggio si é parlato dello sviluppo sostenibile. Di tirare fuori le immense masse dalla povertà. Ma che cosa svolazza nella nostra testa? Il modello di sviluppo e di consumo, che è l’attuale delle società ricche? Mi faccio questa domanda: che cosa succederebbe a questo pianeta se gli Indù avessero la stessa quantità di auto per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno resterebbe per poter respirare? Più chiaramente: oggi il Mondo possiede gli elementi materiali per rendere possibile che 7 mila, 8 mila milioni di persone possano sostenere lo stesso grado di consumo e sperpero che hanno le più opulente società occidentali? Sarà possibile? O dovremmo sostenere un altro tipo di discussione? Perché abbiamo creato una civilizzazione, questa nella quale viviamo, che è figlia del mercato e della competizione, che ha portato un progresso materiale portentoso ed esplosivo. Però l’economia di mercato ha creato una società di mercato e ha prodotto questa globalizzazione, che significa guardare a tutto il pianeta.

Stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione che ci governa? È possibile parlare di solidarietà e di stare tutti insieme in un’economia basata sulla competizione spietata? Fin dove arriva la nostra fraternità? Non dico queste cose per negare l’importanza di questo evento. No, è per il contrario! La sfida che abbiamo davanti è di una magnitudine di carattere colossale e la grande crisi non è economica o ecologica, è politica! E l’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma queste forze governano l’uomo e la vita. Perché non veniamo sul pianeta per svilupparci in termini generali. Veniamo alla vita tentando di essere felici. Perché la vita è corta e se ne va. E nessun bene vale come la vita, e questo è elementare. La vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare di più e la società di consumo è il motore, perché, in definitiva, se si paralizza il consumo si ferma l’economia e se si ferma l’economia appare il fantasma del ristagno per tutti noi. Questo iper-consumo è ciò che sta aggredendo il pianeta e deve generare cose che durano poco, perché si deve vendere tanto. E una lampadina elettrica non può durare più di 1.000 ore accesa. Però esistono lampadine che possono durare 100mila, 200mila ore accese! Ma queste non si possono fare perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo sostenere una civilizzazione di uso e consumo, e così siamo in un circolo vizioso. Questi sono problemi di carattere politico e ci stanno indicando la necessità di iniziare a lottare per un’altra cultura. Non si tratta di regredire all’uomo della caverna, né di innalzare un monumento all’arretratezza. É che non possiamo continuare ad essere indefinitamente governati dal mercato, ma dobbiamo governare il mercato. Per questo dico che il problema è di carattere politico, nella mia umile maniera di pensare.

I vecchi pensatori – Epicuro, Seneca, gli indios Aymaras – dicevano: “Povero non è colui che possiede poco, bensì colui che necessita infinitamente tanto e desidera e desidera e desidera sempre di più”. Questa è una chiave di carattere culturale. Quindi, saluterò volentieri lo sforzo e gli accordi che si fanno. E li sosterrò, come governante. So che alcune cose che sto dicendo stridono. Ma dobbiamo renderci conto che la crisi dell’acqua, che le crisi dell’aggressione all’ambiente, non sono una causa. La causa è il modello di civilizzazione che abbiamo montato. E quello che dobbiamo rivedere è la nostra forma di vivere! Appartengo a un piccolo Paese, molto ben dotato di risorse naturali. Ci sono poco più di 3 milioni di abitanti ma ci sono anche 13 milioni di vacche, delle migliori al mondo. E circa 8 o 10 milioni di pecore stupende. Il mio Paese è esportatore di cibo, latticini, carne. É una pianura e quasi il 90% del suo territorio è sfruttabile. I miei compagni lavoratori lottarono molto per le 8 ore di lavoro. E ora stanno ottenendo 6 ore. Però chi lavora 6 ore, poi si cerca due lavori; pertanto, lavora più di prima. E perché? Perché deve pagare una quantità di rate: il motorino che ha comprato, l’auto che ha comprato, e paga una rata e pagane un’altra… e quando finisce di pagare è un vecchio reumatico come me, e la vita gli è andata via!

E uno si fa questa domanda: è questo il destino della vita umana? Queste sono cose molto elementari: lo sviluppo non può essere contro la felicità. Deve essere a favore della felicità umana, dell’amore per la Terra, delle relazioni umane, di prendersi cura dei figli, di avere amici, di avere ciò è che necessariamente fondamentale. Perché la vita è il tesoro più importante che si ha. Quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente si chiama felicità umana! 

Già! Perché, anziché governare il mercato, continuiamo ad essere governati dal mercato? E perché continuiamo compare lampadine che durano qualche anno, quanto potemmo comprare, allo stesso prezzo, lampadine che durano decenni?  E cos’è la felicità?

Grazie “Pepe” per queste domande. Qualche possibile risposta – forse – l’abbiamo anche, in testa. Ma quel tipo di felicità – forse – ci fa un po’ di paura.

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