La memoria fragile dell’Italia

16 Aprile 2009

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Manuela Scroccu

“Sono tutti morti a causa dei crolli degli edifici. Non sono stati uccisi dal terremoto, ma dalle case”. Le parole dell’ex Procuratore capo di Pescara, intervistato dall’Unità, contribuiscono a squarciare il velo d’ipocrisia che è calato sulla tragedia che ha colpito l’Abruzzo. Non è stata la natura matrigna a porre fine alla vita di 287 persone ma, ancora una volta, il cemento impastato dagli uomini. Un cemento imbastardito dalla sabbia di mare, che si sbriciola come un biscotto di pasta frolla. Secondo i primi rilievi degli esperti, tutti i palazzi del capoluogo abruzzese di nuova costruzione (fino a trent’anni fa) hanno avuto lo stesso comportamento: si sono accartocciati sulle proprie fondamenta perché i pilastri di cemento armato non hanno tenuto. E invece avrebbero dovuto reggere, anche senza invocare le norme antisismiche, che ci sono e sono assolutamente rigorose ma per i privati sono solo sulla carta, perché la loro applicazione viene continuamente prorogata per legge, e per gli edifici pubblici non vengono semplicemente rispettate. Quei pilastri avrebbero dovuto tenere almeno il tempo necessario per consentire alle persone di mettersi in salvo e invece non hanno lasciato scampo. Perché? Chi ha impastato quel cemento? La rappresentazione ufficiale di questo evento ha dato spazio agli eroici soccorritori, alle lacrime di dolore (soprattutto dei politici), alle genti abruzzesi indomite e laboriose pronte a rimboccarsi le maniche di fronte alle avversità  provocate da una natura nemica e feroce, ad uno Stato (anzi ad un governo, decisamente in primo piano) che si presenta efficiente e dice di volersi occupare del futuro con ottimismo. Ogni altra domanda, soprattutto se attiene alle eventuali responsabilità umane, non sembra contemplata anzi è considerata un oltraggio ai morti e al dolore dei vivi. Ma i morti si onorano con la verità, così come con essa si placa il dolore di chi è rimasto. Abbiamo appreso che un terremoto della stessa natura e intensità, in Giappone o in California, non avrebbe avuto lo stesso impatto sul territorio e non avrebbe provocato gli stessi morti. Perché quello che è venuto fuori dal terremoto abruzzese, quello che viene sempre fuori ad ogni catastrofe naturale, è che siamo un Paese “non a norma”. Dove le case dello studente e gli ospedali si costruiscono al risparmio, perché usare cemento impastato con sabbia di mare invece che con sabbia di cava permette al costruttore di guadagnare un buon dieci per cento in più. Si tratta di edifici pubblici e quindi di appalti e gare al ribasso, di una pubblica amministrazione che avrebbe dovuto vigilare e non ha fatto il suo lavoro. Siamo un Paese dove la prefettura è costretta a ignorare la perizia di un esperto che dice “questo edificio non è a regola di legge e potrebbe crollarvi addosso” perché non ci sono i soldi nemmeno per pagare la parcella del perito e dove la maggior parte delle scuole pubbliche non rispetta gli standard minimi di sicurezza. L’Italia gestisce un territorio morfologicamente soggetto a eventi sismici e convive con due grandi vulcani attivi grazie ad una fatalistica rassegnazione e a una memoria molto corta. Belice, Ancona, Tuscania, Friuli, Irpinia, Umbria, Molise, ora l’Abruzzo: ogni volta abbiamo guardato con stupore le macerie e la distruzione, abbiamo pianto i morti, abbiamo assistito ad una solidarietà di popolo straordinaria e spontanea, abbiamo ricostruito e discusso di ritardi e di sprechi e, infine, abbiamo legiferato, a telecamere accese, e poi prorogato, a telecamere spente. La politica dell’emergenza non è mai riuscita a cedere il passo ad una seria politica delle prevenzione, che non significa certo “stabilire l’ora esatta e il giorno di un evento sismico” ma pretendere una nuova politica del territorio che si rifiuti, ad esempio, di continuare a chiudere un occhio in tutte quelle situazioni in cui si accettano dei rischi solo perché affrontarli costa troppo, in termini di soldi o di consenso politico: è il caso di migliaia di edifici scolastici pericolosi, è il caso delle tante abitazioni private lasciate proliferare in zone a rischio sismico conclamato, come le pendici dei nostri maggiori vulcani, oppure  sul letto dei fiumi, come è capitato a Capoterra solo qualche mese fa. Le ragioni sono tante: certamente culturali e legate all’incapacità dei cittadini e della classe politica da essi espressa, di percepire il territorio nel quale si vive con il rispetto dovuto ad un sistema vivo da tutelare e non da depredare; non bisogna dimenticare, inoltre, che, grazie alla politica dell’emergenza, in questo Paese qualcuno è ingrassato per generazioni. Per l’ennesima volta la fragilità con la quale il nostro territorio reagisce alle catastrofi naturali ci pone di fronte a questi interrogativi. Le risposte sapranno incidere su una cultura inadeguata mettendo a frutto le esperienze precedenti o, ancora una volta, si rimetterà in piedi il carrozzone degli aiuti e si rispolvereranno i vecchi metodi degli incentivi a pioggia all’industria e all’edilizia? Sono domande sulle quali, guardando con attenzione, si può scorgere ancora la polvere delle macerie del Belice, dell’Irpinia e di San Giuliano di Puglia.

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