Pateracchi sovranisti

16 Giugno 2012

Graziano Pintori

L’interessante intervento di Marco Ligas “Neologismi o trasformismi?”, pubblicato sul n. 123 di questo on-line, mi ha imposto ulteriori riflessioni sulla imponderabilità di chi elabora e gestisce la politica. La crisi strutturale delle società non risparmia nessuno, siamo all’apice delle iniquità sociali tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra giustizia e potere, tra diritti e privilegi. Siamo in una fase in cui la natura parassitaria del capitalismo sente la necessità di cambiare e rinnovarsi,  perciò si inventano nuove ristrutturazioni sociali ed economiche, che trovano accoglienza nei vari passaggi dalle prime alle seconde e terze repubbliche. Viviamo tutti una fase di transizione, ci sentiamo un po’ sospesi dalla vita, come se fossimo in attesa chissà di chi e che cosa, si percepisce quel senso di precarietà, di futuro offuscato che induce un po’ tutti al si salvi chi può. I “gestori”di molti partiti, ben consci di questa condizione prima del cittadino comune, attivano il camaleontismo, o più appropriatamente il trasformismo, per non perdere il “mantenimento di una posizione di privilegio o di potere all’interno degli schieramenti politici”. Mica si sfasciano la testa con l’interrogativo leninista: Che fare?, oppure organizzare i cittadini contro la BCE che si preoccupa di sostenere il capitale privato delle banche,  piuttosto che la sorti della collettività europea. Per certi signori della politica, privi di concretezza e prospettive programmatiche, è più facile parlare e far credere che dicono qualcosa di alternativo e importante, come quel personaggio citato da Ligas “…come si possa parlare di lotta di classe dal momento che le nostre città sono pervase dalla globalizzazione e la finanza si è appropriata della vita degli uomini”. Come dire che la storia ormai non sarà più determinata dal conflitto tra classi egemoni e classi subalterne, ma dalla finanza che si è appropriata della vita degli uomini; come dire che l’impegno politico non deve essere più rivolto verso la giustizia sociale e “l’emancipazione umana da ogni forma di dominio”, ma al contrario dobbiamo volgere i nostri sforzi, cioè la comprensione del mondo e la sua trasformazione,  per mitigare gli effetti della finanza che si è appropriata della vita degli uomini.
Essendo un militante della sinistra tutto questo mi appare come il fallimento della politica, la fine di quei laboratori di cultura, di elaborazione, di progetti, di proposte che da sempre hanno caratterizzato il sistema dei partiti.
Purtroppo uno dei tanti esempi dello sgretolamento  di tale sistema l’abbiamo avuto in Sardegna con i referendum, in cui i partiti ufficiali  hanno dimostrato di essere lontani anni luce dai cittadini elettori. Sono questi cittadini che hanno messo a nudo i limiti dei dirigenti politici e dei loro teatrini. Il  corpo elettorale ha agito come se fosse un genio impazzito e senza redini, visto che è riuscito a districarsi fra i dieci quesiti, dando la giusta risposta a ciascuno di essi, nonostante il conclamato disimpegno delle macchine elettorali dei partiti. Questi ultimi, nonostante l’esito chiaro e inconfutabile, hanno preferito la nausea della discettazione sulla costituzionalità o meno dei quesiti posti, piuttosto che l’interpretazione dei messaggi contenuti in quel risultato.
Ovvero: la fame di giustizia, di equità, di chiarezza, di rinnovamento, di voci e toni diversi. La politica ufficiale dei partiti, come se fosse in blackout totale,  continua a definire Grillo un saltimbanco, un giocoliere della parola nonostante l’elettore gli manifesti il proprio consenso; non si sforza minimamente di capire perché il trascinatore del M5S ottiene un seguito così importante. La politica ufficiale non vuole convincersi che anche Beppe Grillo può dire cose giuste e normali, usando i toni che da sempre hanno caratterizzato i suoi spettacoli, con la differenza che prima faceva solo ridere, adesso fa anche riflettere quando denuncia l’uso della politica come un affare privato, quando definisce i politici una casta che si alimenta e si celebra  occupando, costantemente, i santuari istituzionali. Ma i politici che già si sentono il fiato sul collo sono quelli assuefatti alla pratica politica, sono quelli che sanno difendere i privilegi acquisiti ricorrendo alla fantapolitica, all’ artificiosità di certe proposte come il “sovranismo”.  Un neologismo che, secondo la mia fantasia, sintetizza quanto avviene nel mondo vegetale, in cui certe piante alimentano il loro ciclo vitale esponendo colori e profumi per attrarre certi insetti, che vanno a posarsi proprio sul punto in cui si fa scattare la trappola che li avviluppa, soffocandoli e digerendoli. Ed è l’impressione che ho di SeL, che si avventura, posandosi sul fiore del “sovranismo”, in un viluppo estraneo alla logica che dovrebbe distinguere il suo operare: costruire (anche) l’unità della sinistra.
Il ruolo di SeL nel panorama della sinistra è molto importante e delicato, perciò in Sardegna non può essere dissolto con un pateracchio con la destra. Oppure, in politica nulla è casuale,  il fiore del “sovranismo” potrebbe essere un anticipo del soggetto plurale, in salsa sarda, della tattica bersaniana di volere al suo fianco a tutti i costi l’UDC di Casini. Così  Bersani – Casini – Vendola  brucerebbero la foto di Vasto.
L’esito parziale delle amministrative del 10 giugno in Sardegna fanno capire che il centro con la destra reggono: un presagio affinché  il fiore del “sovranismo” appassisca al più presto.

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