La possibile perdita dell’identità europea

16 Maggio 2019

Banksy e la Brexit: murale a Dover.

[Gianfranco Sabattini]

Il libro di Douglas Murray, “La strana morte dell’Europa”, divenuto un bestseller internazionale, indaga sulle cause della crisi d’identità del Vecchio Continente, in particolare, di quella dei Paesi dell’Europa occidentale. Murray, commentatore politico britannico, nonché fondatore del “Center for Social Cohesion” ed editore della rivista politica e culturale “The Spectator”, narra delle questioni che, a suo parere, non senza fondamento, sono alla base della possibile scomparsa delle condizioni socio-culturali della convivenza europea.

Quando Murray afferma che l’Europa si sta “avviando verso la sua autodistruzione”, non si riferisce alle norme dei Trattati comunitari o ai regolamenti varati di continuo dalla Commissione Europea o alle lacune della “Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo”, ma al “fatto che si sta suicidando la civiltà che va sotto il nome di Europa”, e nessuno dei Paesi che la compongono riuscirà ad evitarlo, perché “tutti soffrono degli stessi sintomi e delle stesse malattie”. Di conseguenza – afferma il commentatore politico britannico – “la maggior parte degli europei attualmente in vita assisterà in prima persona al crollo dell’Europa e i popoli europei perderanno l’unico luogo al mondo che potevano chiamare patria”.

Le cause della crisi sono molteplici, ma se il senso d’identità degli europei va lentamente smarrendosi, ciò è dovuto essenzialmente al verificarsi di due sistemi di eventi che, a parere di Murray, “sono ormai praticamente irreversibili”. Il primo di essi è espresso dall’emigrazione di massa degli ultimi anni verso i Paesi dell’Europa occidentale, col risultato “che quella che un tempo era la patria degli europei è diventata a poco a poco la patria dei cittadini di tutto il mondo”. Il secondo sistema di eventi è riconducibile al fatto che l’Europa “ha smesso di credere nei propri valori, nelle proprie tradizioni, nella propria legittimità”. Tutti questi eventi sono, per Murray, la conseguenza del fatto che l’Europa sia oppressa dai sensi di colpa per il proprio passato e da altri ancora più interiorizzati.

Da quest’ultimo punto di vista, a parere di Murray, le classi dirigenti dell’Europa sarebbero afflitte dal convincimento che, per le genti del Vecchio Continente, la storia sia finita e sia giunto il momento di un nuovo ciclo storico: le migrazioni di massa, ovvero “la sostituzione di gran parte della popolazione europea con altre genti”, per chi è convinto che l’intera popolazione europea soffra della sindrome esistenziale d’essere giunta al punto omega della propria storia, sarebbe uno dei modi in cui può essere immaginato questo nuovo ciclo. Per questo motivo, secondo il commentatore politico britannico, l’Europa avrebbe deciso di suicidarsi; o meglio – egli afferma – “i suoi leader hanno deciso di suicidarsi. Che i cittadini europei scelgano di farlo è, naturalmente, un’altra questione”.

Per le sue convinzioni sulla crisi di identità dell’Europa, Maurray, in quanto membro del movimento neoconservatore britannico, è spesso accusato di razzismo; ma la sua analisi, invece d’essere indirizzata contro i suoi critici, mette in risalto come l’affermarsi di partiti di destra in quasi rutti i Paesi dell’Europa comunitaria sia dovuto al fatto che, al di là della loro crisi esistenziale, le classi politiche europee abbiano ignorato le preoccupazioni degli elettori. Per i problemi posti dai crescenti flussi di immigrati, forse sarebbe stato possibile trovare una soluzione, se – osserva Murray – di essi si fosse discusso e non fosse accaduto che, nel momento della massima emergenza migratoria, nel 2015, riflessione e dibattito sull’argomento, avessero “incontrato notevoli impedimenti”, che sono valsi a precludere alle classi politiche europee l’acquisizione di “idee chiare” sul come affrontare l’emergenza; chiarezza di idee per la quale sarebbe risultato utile un confronto e una discussione sull’identità dell’Europa.

All’inizio degli anni 2000. ricorda Murray, il dibattito sul tema dell’identità è culminato “nello scontro sulla nuova Costituzione europea” e sull’assenza in essa “di espliciti riferimenti alle radici cristiane del continente europeo”. Su questo punto, sulla scorta di un “intervento” di Papa Wojtyla, era sembrata prevalere l’idea che, nel pieno rispetto della laicità delle istituzioni, i redattori del Trattato costituzionale europeo dovessero sancire il “riferimento al patrimonio religioso e specialmente cristiano dell’Europa”. Sennonché, oltre a dividere l’Europa dal punto di vista geografico e politico, il dibattito sulla sua identità culturale è valso solo ad evidenziare che l’aspirazione delle forze politiche europee consisteva in realtà solo nella necessità di affermate la laicizzazione dell’Europa, presumendo di poterne configurare l’identità con “una serie di diritti, norme e istituzioni” capaci di esistere anche senza il riferimento all’individuazione dei valori che li avevano ispirati.

Al posto di tali valori, è stato imposto “il linguaggio altisonante dei ‘diritti umani’”, senza chiarire però se tali diritti si basassero su valori (di origine cristiana o laica) in cui il Vecchio Continente aveva smesso di credere, o se invece, esistessero autonomamente. Si è trattato di una decisione piena di conseguenze inaspettate, quella di aver deciso di lasciare irrisolto il problema delle radici, “nel momento in cui ci si aspettava che un gran numero di nuovi arrivati” fossero integrati nella cultura e nelle tradizioni delle società dei Paesi europei.

Nello stesso periodo, in concomitanza con l’approfondirsi dell’integrazione mondiale delle economie nazionali, è sorto anche il problema, strettamente connesso a quello dell’immigrazione, riguardante il ruolo e lo scopo dello Stato-nazione che, dalla pace di Vestfalia del 1648 sino alla fine del XX secolo, era divenuto il “miglior garante”, non solo dell’ordine costituzionale e dei diritti liberali, anche della pace e dell’ordine sociale; una garanzia che, in concomitanza con l’aggravarsi del problema dell’immigrazione, è però venuta meno. La disintegrazione degli Stati nazionali europei, iniziata nel corso degli anni Novanta, a favore di una grande unione politica integrata è divenuta, nell’immaginario delle forze politiche europee, l’alternativa alla soluzione dei problemi posti dall’intensificarsi dei flussi migratori, soprattutto di quello relativo alla integrazione sociale dei crescenti flussi di migranti.

Non tutti i cittadini europei erano però convinti che ciò potesse costituire una valida alternativa; ne è prova il fatto che, vent’anni dopo, molti elettori dei Paesi del Vecchio Continente hanno trasferito la fiducia politica a favore di quei partiti che hanno legato la loro credibilità elettorale a programmi xenofobi, razzisti, e sovranisti, per un ritorno alla “purezza” razziale garantita dalla sovranità dello Stato-nazione. Anche nel caso del dibattito sul ruolo e sullo scopo dello Stato nazionale, perciò, la mancata acquisizione di una “chiarezza di idee” – a parere di Murray – ha lasciato irrisolta una questione “gravida” di implicazioni insostenibili, per essere stata trascurata in un’epoca di grandi cambiamenti demografici.

La mancanza di una “narrazione unificante riguardo al nostro passato e di idee su presente e futuro” – afferma Murray – sarebbe stata una grave lacuna in qualsiasi momento della storia dei Paesi europei; ma il fatto che essa caratterizzi un’epoca di grandi cambiamenti sociali si sta rivelando una “minaccia fatale” che sta pesando sulle sorti future del Vecchio Continente. Ciò è dovuto al fatto che l’irrobustirsi dei flussi migratori ha coinciso con il momento particolare in cui l’Europa ha mancato di definire la propria identità e il ruolo e la funzione dello Stato-nazione all’interno del quale le popolazioni dei singoli Paesi europei per secoli si sono sentiti protetti. I “nuovi arrivati”, provenienti da diverse culture , per convergere verso un’altra “forte ed assertiva”, qual era quella europea del passato, avrebbero forse potuto essere accolti ed integrati; ma nel momento in cui si sono registrati i “nuovi arrivi” in un’Europa afflitta dai sensi di colpa del proprio passato, da un affievolimento della sua identità e dall’indebolimento della protezione garantita dal proprio “involucro istituzionale”, qual era stato lo Stato-nazionale, essa (l’Europa) non si è trovata nella migliore delle condizioni per poter ricevere ed integrare gli immigrati.

Per riuscire ad accogliere i “nuovi arrivati”, sarebbe stato necessario che l’Europa disponesse delle conoscenze necessarie, per poter attuare una politica di inclusione quanto più ampia e condivisa, sulla base di una consapevole definizione di sé sufficientemente ampia per poter realizzare l’inclusione e l’integrazione sociale dei “diversi”. Ciò, secondo Murray, avrebbe significato che i valori fondativi dell’Europa sarebbero dovuti risultare “tanto elastici da perdere tutto il loro spessore e significato”; mentre nel passato l’identità dell’Europa poteva essere fatta risalire alla sua storia culturale e giuridica, oggi si è preferito tendere a “farla ruotare” intorno a vocativi, quali “rispetto”, “tolleranza” e “diversità”, tali da consentire una definizione del Vecchio continente tanto vaga e debole da non riuscire ad evitare lo smarrimento di “quel senso di appartenenza che una società deve avere” per superare ogni forma di incertezza riguardo al proprio futuro.

Stando così le cose, quale tipo di società – si chiede Murray – ne potrà derivare per i cittadini europei? Tenuto conto del fatto che la leadership comunitaria continuerà a ribadire la validità dei vocativi (invitanti ad avere rispetto e tolleranza per la diversità dei migranti) rivelatisi sinora inefficaci, la risposta che egli dà all’interrogativo è che, a metà del nuovo secolo, “la Cina probabilmente sarà ancora riconoscibilmente Cina, l’India India, la Russia Russia e L’Europa dell’Est Europa dell’Est, ma l’Europa occidentale assomiglierà, nella migliore delle ipotesi a una versione su vasta scala dell’Assemblea delle Nazioni Unite”.

Anche se non è possibile prevedere il futuro, ovunque la situazione politica e sociale tende ad indirizzarsi verso la stessa direzione: da anni le forze politiche dei Paesi europei sono incapaci di esprimere a livello comunitario una politica estera coordinata per la soluzione dei problemi posti dai flussi migratori. A causa della loro mancata soluzione, quelli riguardanti l’immigrazione sono diventati problemi politici interni propri di ciascun Paese dell’Unione Europea; è accaduto così che in tutti gli Stati che compongono l’Unione sia maturata una situazione politica destinata a un crescente peggioramento.

Le classi politiche europee, si sono poste l’obiettivo immediato di attuare politiche per l’immigrazione rispettose solo della diversità e del pluralismo, anziché inaugurarne una comunitaria di lungo periodo, legittimata al cospetto dell’opinione pubblica per l’avvio di un processo di integrazione dei “diversi” correlato al potenziamento della base produttiva dell’intera economia comunitaria; esse hanno invece concorso con le loro scelte egoiste di breve respiro, com’è accaduto ad esempio in Italia, ad irrobustire l’importanza dei partiti politici ossessionati dalla xenofobia, degenerata spesso in forme di razzismo e, quel che più preoccupa, in forme di intolleranza che mettono a rischio le libertà democratiche.

Per quanto riguarda l’Italia, è preoccupante che la classe politica non tenga nel dovuto conto che i cittadini da essa rappresentati non siano in maggioranza razzisti, né propensi a rinchiudersi, per la cura dei propri interessi, all’interno delle anguste mura del vecchio “involucro istituzionale” dello Stato-nazione; ne è prova il fatto che gli italiani, pur essendo ancora in maggioranza favorevoli a rimanere nell’Unione Europea (come del resto lo sono i cittadini di tutti gli altri Paesi che ne fanno parte), sono però contemporaneamente convinti che i loro governi non debbano cedere alle pretese di Bruxelles circa i migranti.

In altri termini, gli italiani sono contrari al perpetuarsi di una politica per l’immigrazione, come suol dirsi, à la carte, cioè “casuale e alla giornata”, aperta a un’accoglienza fuori da una sua collocazione organica all’interno di una visione di più lungo periodo; ciò al fine di evitare la formazione di ghetti, che si sono formati (e continuano a formarsi) in molte città italiane ed europee, e la cui permanenza sta minando la base della convivenza sociale, se non, secondo le previsioni catastrofiche di Murray, della stessa sopravvivenza, non solo dell’intera Europa comunitaria, ma anche (ciò che è devastante solo a pensarlo) dell’identità del Vecchio Continente.

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