La stupidità dei negazionisti e la disumanità sanitaria

8 Settembre 2020

[Ottavio Olita]

Nelle stesse ore dell’ignobile dimostrazione di arroganza e stupidità dei negazionisti della pandemia ho raccolto due testimonianze su quale disumanità può raggiungere la presunzione che solo il personale sanitario debba occuparsi dei malati. E non sto parlando di Covid. Ecco i fatti.

         Il 2 settembre mi telefona una carissima amica per annunciarmi che il fratello, affetto da tempo da una grave patologia polmonare, è stato costretto al ricovero per colpa di una crisi respiratoria. Dato il lungo e profondo rapporto di amicizia che ho con lui gli telefono in ospedale. Mi risponde con voce affaticata, ma mi tranquillizza. Affronterà anche quella prova sapendo che sarà trattato nel migliore dei modi. Due giorni più tardi, al mattino presto, mi ritelefona la sorella per annunciarmi, disperata, in lacrime, che il mio amico è morto. Dopo lo sconcerto e il dolore cerco di capire cosa è successo e come. Lascio passare 24 ore e poi riesco a farmi raccontare  il dramma vissuto da quella famiglia. Durante il ricovero, nessun familiare ammesso a visitare o almeno a vedere da lontano il paziente. Unica possibilità di avere notizie, un telefono e un’ora precisa. Solo che in quell’ora quel telefono risulta staccato. Angosciate, la sorella e una delle figlie si avvicinano al reparto, anche perché devono fare avere al congiunto un medicinale fondamentale per controllare la patologia pregressa. Una guardia le ferma all’ingresso. Non possono passare, anche perché il paziente, da quel che riferiscono alla guardia in una telefonata fatta  in reparto, risulta ‘non stare bene’. In realtà il mio amico sta già morendo. Ed è questa disumanità verso il paziente e i familiari che spaventa. Perché non consentire a quell’uomo e a quelle donne un ultimo sguardo, una lacrima. Perché condannare alla totale solitudine chi già sta soffrendo anche per il dolore che sa di arrecare alla famiglia? Quale tutela e per chi? O non sarà che è un fastidio dover affrontare la sofferenza dei familiari? O, peggio, è la paura che i familiari possano rendersi conto di errori o manchevolezze? Chi prende queste orribili decisioni? Quale uomo o donna che abbia responsabilità di gestione e un cuore sensibile può accettare cose del genere?

         Non facciamo in tempo, io e mia moglie, ad andare al funerale del mio amico che quella stessa mattina veniamo raggiunti da un’altra telefonata che annuncia la morte di uno zio a cui mia moglie era molto legata. E’ deceduto per una crisi cardiaca in un ospedale a centinaia di chilometri dal comune in cui viveva. E’ arrivato in quell’ospedale trasferito d’urgenza da un centro riabilitativo dove da circa un mese lo sottoponevano a trattamenti per il recupero da un ictus devastante. Raggiungiamo la vedova, una donna anziana ma molto lucida,  nella camera mortuaria dell’ospedale e, anche per aiutarla a tirarsi fuori dal fiume di lacrime che sta versando incessantemente, ci facciamo raccontare quel che è accaduto.

         Colpito dall’ictus, l’uomo era stato ricoverato una prima volta in un altro ospedale, più vicino al luogo di residenza. Nonostante anche lì  ci sia il divieto assoluto di far avvicinare i familiari, il primario, che sotto il camice dimostra di avere un cuore, consente eccezionalmente alla moglie di andare a salutarlo. Poi più nulla, neppure all’unico figlio, legatissimo al padre. Terminata la fase degli interventi d’emergenza, viene deciso il trasferimento del paziente in una struttura abilitata al recupero dei paralizzati. L’unica che ha disponibilità di posti è a oltre 150 chilometri. Moglie e figlio una sola volta a settimana sono autorizzati a fare la spola avanti e indietro per le visite. Negli altri giorni potranno telefonare. Ma anche in questo caso all’ora consentita il telefono è sempre staccato. Quindi nessuna notizia. Autorizzano in seguito il paziente ad avere un telefono per le videochiamate, ma la struttura dispone di un’unica infermiera che possa aiutarlo, vista la sua grave disabilità, ad avere i contatti telefonici. Infermiera che ha i suoi turni e i suoi giorni di ferie, come tutti. Quindi anche quello strumento tecnologico che potrebbe aiutare risulta inutilizzabile. Quella stessa infermiera, anche lei, evidentemente, con un cuore sotto il camice, un giorno che l’uomo vuole disperatamente vedere il figlio gli consente, spostandolo su una sedia a rotelle, di avvicinarsi ad una finestra e a far dialogare, attraverso una zanzariera, padre e figlio che così hanno quell’unica possibilità per dimostrarsi scambievolmente l’amore che li lega. Se è stato possibile quella volta, perché non farlo altre volte? L’infermiera va in ferie o non è più di turno e chi la sostituisce  non intende ragioni: l’ordine è di non consentire quell’approccio fantasioso e una tapparella copre inesorabilmente la zanzariera. Chi sarebbe risultato danneggiato da quel modo di dare una consolazione a un padre e a un figlio? Chi correva qualche rischio? E cosa ne sanno questi inesorabili osservatori di leggi disumane che la solitudine a cui quel paziente è stato costretto, l’allontanamento coatto dai suoi affetti, quella sorta di sequestro di persona legalizzato, non abbia causato la crisi cardiaca che ha poi portato alla morte quel pover’uomo?.

         Da un lato il negazionismo, da un lato la disumanità. Possibile che la sanità in Italia debba fare i conti con arroganza e stupidità da un lato, ottusità burocratica e cattiveria dall’altro? Se il paziente e non la cura tornassero ad essere centrali, non dovremmo più venire a sapere di fatti come quelli qui raccontati e che forse sono solo la punta di un enorme iceberg.

Nell’immagine: I negazionisti del Covid19 che manifestano a Roma, senza mascherine né distanziamento sociale, in piazza Bocca della Verità.

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