La torre di guardia

16 Maggio 2009

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Igino Panzino

Siamo più volte intervenuti, sia redazionalmente che ospitando contributi, sui temi urbani e in particolare su quelli legati al rapporto fra conservazione e fruizione attiva e partecipata. Un’artista sardo noto e militante come Igino Panzino si è misurato proprio in questi giorni con i ruderi un po’ maltrattati e controversi del castello di Sassari (anche su questo problema abbiamo fatto più di un intervento), riemersi dopo una violenta, ma non ancora cessata, damnatio. Abbiamo chiesto a Panzino che ci parlasse di questo intervento site specific, delle sue ragioni e tecniche, e che ci dicesse qualcosa (anche di sinistra) sulla questione dell’arte pubblica, sulla quale sarebbe utile riaprire un dibattito che appare, come ricorda lo stesso artista, transnazionale. (Manifesto Sardo)

Partecipo alla benemerita iniziativa sulle arti visive intitolata “metamorfosi urbane”, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Sassari, con due opere, una situata negli scavi di Piazza Castello e l’altra nella Biblioteca Comunale, questi lavori fanno parte di un più ampio progetto che si potrebbe definire di arte “civica” (rubo questa definizione agli Stalker) e che sto portando avanti da diverso tempo a questa parte. L’idea è quella di cercare di stabilire con la città un rapporto diretto che non passi attraverso i luoghi ufficiali del sistema dell’arte come musei e gallerie, ma che si svolga in luoghi urbani rappresentativi come l’ex Ospedale Psichiatrico, il parco di Monserrato, la Facoltà di Lettere e Filosofia, gli scavi archeologici di Piazza Castello e la Biblioteca Comunale, luoghi dove ho appunto realizzato i miei ultimi interventi e le mie ultime mostre.
Il lavoro intitolato “splendido splendente”, situato negli scavi di Piazza Cavallino de Honestis, consiste nella trasformazione di una preesistente costruzione cantieristica, ormai appartenente al panorama cittadino, in opera d’“arte pubblica” ho inteso così interagire con la struttura provvisoria realizzata in tavole e longheroni di legno e non ho avuto, come si potrebbe pensare, alcuna intenzione di confrontarmi con l’aspetto archeologico di questo sito. Dipingendo con colori visibili questo impianto, che ovviamente non nasce con finalità estetiche ma soltanto con la funzione tecnica di arginare lo smottamento del marciapiede circostante, ho voluto mettere in evidenza l’inconsapevole e spontanea qualità plastico-formale che gli appartiene e che è comune a molte soluzioni cantieristiche che non vengono da progetti dettagliati ma dalla semplice esperienza pratica. Mi è piaciuto così rendere omaggio alla cultura materiale del fare, e sottolineare le sapienze manuali del mestiere, ed a maggior sostegno di questo proposito ho scelto di applicare un’interpretazione “popolare” del decoro urbano ed ho perciò deciso dei colori simili a quelli utilizzati (per esempio) nella decorazione dei Candelieri: antichi e popolarissimi emblemi dei Gremi dei lavoratori.
Voglio proporre in questo modo un esempio site specific d’“arte pubblica” non invasivo, che si limita semplicemente a dare visibilità ad un luogo particolare del contesto urbano, come se avessi usato un gigantesco pennarello evidenziatore per tracciare un punto di una mappa psicologica della città in scala reale, un intervento effimero destinato a scomparire con la realizzazione di un assetto definitivo del luogo in oggetto. Nel lavoro collocato nella Biblioteca Comunale, intitolato “leggere”, ho inteso affermare in modo perentorio il valore della lettura evitando inutili riflessioni dottrinali sull’ovvia importanza di questo esercizio. Per ottenere questo risultato ho adottato un linguaggio formale visibilmente affine a quello, di ampia diffusione, delle tecniche pubblicitarie di persuasione palese, ed ho proposto un’opera che si guarda e si legge. In quest’opera fanno da sfondo a delle scritte, che riportano la parola leggere tradotta in diverse lingue, delle fotografie di carte accartocciate che creano un conflitto vitale ed inquietante con l’imperativo indicato, mettendo sull’avviso chi guarda (e chi legge) sulla transitorietà della cultura. Diventa visiva la contraddizione paradossale tra la necessità della conoscenza e la consapevolezza di quanto i valori trasmessi dal sapere siano mutevoli nel tempo e nello spazio. La “drammaticità” di questo scontro viene intenzionalmente offuscata, con volontà fuorviante, dall’eleganza compiaciuta e rassicurante della composizione che, a tal fine, propone tra una carta e l’altra delle rilassanti pause cromatiche, aggiungendo così un ulteriore piano interpretativo.
Con questi miei lavori intendo rivolgermi al rapporto, vivo in ognuno di noi, tra l’occhio e la mente, sollecitare delle connessioni neuronali tra immagini ed immagini, tra immagini e pensieri, tra pensieri e pensieri, credo, infatti, che questa capacità di attivare correlazioni tra mondi visivi e mentali rappresenti nella realtà la vera funzione comunicativa dell’arte, finalizzata ad ampliare le esperienze percettive e le emozioni di quanti si lasciano coinvolgere. Non intendo perciò comunicare delle tesi definite, del resto non credo che il compito dell’arte sia quello di comunicare, se per comunicazione si intende semplificazione. La trasmissione di concetti complessi, come quelli espressi dall’arte, richiederebbe, ai fini comunicativi, una compressione della varietà di contenuti che questi concetti portano, si finirebbe così per mortificare la natura stessa dell’arte, che è e deve restare complessa anche quando sembra semplice. Uno dei temi centrali della manifestazione “Metamorfosi urbane” è quello dell’arte pubblica, il dibattito transnazionale in corso da diverso tempo su questo argomento ha visto crescere delle posizioni critiche, anche da parte, in diversi casi, degli stessi abitanti degli spazi urbani a cui le opere sono destinate. Con queste prese di posizione si segnalano i limiti delle ambizioni inconcludenti che spesso caratterizzano questi interventi artistici, nonché l’estraneità, formale e sociale, ai luoghi in cui vengono, altrettanto spesso, calati dall’alto.

Naturalmente questi rilievi sono del tutto condivisibili quando non diventano atteggiamenti di rifiuto aprioristico verso lo stesso concetto di arte pubblica. Nella nostra città, purtroppo, la scarsa qualità dei pochi lavori presenti dà assolutamente ragione a questi atteggiamenti critici.  Nonostante tutto non credo però che si possa dire che le città del nostro Paese siano devastate dai cattivi esempi di arte pubblica, è del tutto evidente che i danni maggiori sono stati provocati dalla speculazione edilizia effettuata dal dopoguerra ad oggi che ha prodotto un’urbanistica ed un’architettura di qualità ben peggiore rispetto a quella delle poche opere d’arte contemporanea presenti nelle nostre città, e che hanno effetti pratici ben più pesanti nella vita materiale dei cittadini.
Mi piacerebbe che anche verso questi aspetti si sollevassero le stesse voci critiche sia da parte del mondo scientifico che da parte di quella utenza, così pronta ad indignarsi (soprattutto se eccitata da ragioni di schieramento politico) davanti a quelli che considera sprechi in arte, che resta però del tutto passiva rispetto a quei disastri sopra citati in cui è costretta a vivere. A sostegno dell’utilità sociale di questa disciplina va detto che, a mio avviso, l’arte pubblica può avere delle funzioni positive insospettabili anche in relazione a temi che ne sembrano assolutamente distanti come, per esempio, quello, attualissimo, della sicurezza. Mi è già capitato di citare il lavoro di due criminologi americani, dei quali non ricordo il nome, che hanno condotto una ricerca sullo sviluppo della criminalità in relazione alle dinamiche sociali delle metropoli, conosciuta col nome di “teoria del vetro rotto”, secondo la quale quando in uno spazio condominiale si rompe un vetro e questo non viene immediatamente sostituito, il passaggio da questa omissione al degrado completo dell’area urbana a cui lo stesso condominio appartiene è molto più breve di quanto non si possa immaginare.
Si mette in moto, infatti, un processo di disaffezione accelerato, che arriva ad interessare l’intero quartiere, e che finisce col deprezzare il valore di mercato degli immobili, la zona viene perciò progressivamente occupata, in quanto area degradata, da ceti sociali tra i più disagiati con un conseguente accrescimento dei problemi che vanno dal deperimento dei servizi a quelli che riguardano la sicurezza. Il percorso diametralmente opposto a questo dovrebbe essere quello di un quartiere attento al decoro urbano, vivacizzato da attività artistiche, culturali e di partecipazione sociale, che riesca a realizzare con criterio un patrimonio condiviso di opere d’arte pubblica, anche permanenti, e così facendo a conservare, se non anche ad incrementare, il valore di mercato delle case, ed a mantenere una qualità di vita civile ed un attaccamento al proprio posto capace di contenere anche i problemi di sicurezza.
Si potrebbe cioè riassumere, anche se mi rendo conto della quota di cinismo alla “Cicero pro domo sua” e di approssimazione meccanicistica che l’affermazione contiene, che più arte uguale più sicurezza, di sicuro sappiamo che i quartieri controllati da camorra e mafia (come quelli descritti da Saviano), dove gli addetti alla sicurezza non riescono neanche ad entrare, non offrono nessun esempio né buono né cattivo di arte pubblica.

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