La vittoria di Trump nella guerra dei dazi

30 Luglio 2025

[Alfonso Gianni]

La partita dei dazi fra Usa e Ue si è giocata non a caso a Turneberry, in uno dei campi di golf di proprietà di Trump e si può tranquillamente dire che è stata una debacle per gli interessi europei.

Ci vuole una buona dose di faccia tosta per affermare, come ha fatto Ursula Von der Leyen, che si è trattato di un risultato “enorme” corrispondente al “massimo” che si sarebbe potuto ottenere. Tanto più che si era partiti da dichiarazioni da un lato ottimistiche, dall’altro bellicose. Le prime facevano credere che si potesse puntare a un risultato finale sul tipo di uno “zero per zero”. Le seconde che si poteva percorrere la strada di una guerra commerciale di non breve durata. La prima ipotesi è stata subito bersagliata dall’aggressività spavalda di Trump che ha continuamente alzato l’asticella delle tariffe doganali. Una tattica del continuo rialzo che però già prevedeva un punto di caduta. Esattamente quel 15% che aveva trovato già una sua applicazione nel confronto con il Giappone e che in quello con la Ue rappresenta una indubbia vittoria tutt’altro che solo simbolica da parte di Trump.

Va sempre considerato che la guerra dei dazi è stata cominciata dal tycoon all’interno di una più ampia strategia di politica economica e finanziaria giocata a livello internazionale. E’ quanto sta scritto nel corposo documento del novembre del 2024, stilato dal suo principale consigliere economico, Stephen Miran, che suggerisce all’Amministrazione americana di alternare il “bastone e la carota” (testuale nel paper citato) nei rapporti con i vari paesi sullo scenario internazionale. In questa visione l’applicazione dei dazi e la loro ipertrofica minaccia preventiva, costituisce il bastone, mentre la carota sarebbe rappresentata dalla continuazione di una protezione militare, o meglio la rinuncia ad un totale o parziale abbandono della stessa. Qui emerge già un primo elemento che pone fin dall’inizio in vantaggio la posizione negoziale (si fa per dire) di Trump. Ed è, per l’appunto l’intreccio strettissimo, inestricabile direi, fra la trumponomics e la costruzione sul piano globale di un sistema di guerra, qualche cosa che va oltre la guerra infinita che già conoscevamo perché tende ad avvolgere ogni cosa, dalla economia alla politica internazionale, dalla repressione interna di ogni forma di dissenso all’attacco frontale al diritto internazionale, dal considerare apertamente la democrazia come un nemico dello sviluppo economico capitalistico (vedi le dichiarazioni del miliardario trumpiano Peter Thiel) allo svilimento, alla decostruzione e all’abbandono delle sedi internazionali uscite dagli accordi di Bretton Woods e dalle solenni decisioni assunte nell’immediato dopoguerra.

Insomma Trump non è la semplice continuazione della politica neoliberista del sistema finanzcapitalista e neppure la riedizione del Trump uno, se non altro perché, a meno di colpi di stato più o meno espliciti, il tempo che ha davanti il tycoon è certamente più limitato che non in precedenza per il suo progetto di ristabilire la forza dominante degli Usa nel mondo. Mentre la Ursula von der Leyen e le forze che la sostengono pensano che in fondo gli iniqui accordi del campo di golf potranno essere ridiscussi o addirittura modificati allo scadere dei prossimi tre anni, Trump mette a segno un altro colpo della sua strategia destinato a incidere profondamente nei rapporti con il resto del mondo, in particolare con l’Europa.

D’altro canto non abbiamo solo i dazi del 15%, ma anche la voluta scelta di svalutare il dollaro – anche questo uno dei pilastri del documento programmatico di Miran – al fine di fronteggiare in qualche modo l’enorme crescita del debito statunitense e di rendere i rapporti commerciali più favorevoli agli interessi Usa. Infatti il Presidente di Confindustria Orsini, mentre la Meloni si poneva nella scia della von der Leyen, avvertiva in ogni convegno nel quale gli veniva data parola, che l’incremento dei costi per l’export italiano non poteva solo misurarsi in base ai dazi più imposti che concordati, ma che ad essi si dovrà aggiungere da subito quel 13% che nel giro di pochi mesi ha siglato la perdita di valore della moneta americana. Per cui, come si può facilmente vedere da una semplice somma, la perdita di competitività reale dei prodotti europei negli Usa si avvicina proprio a quel 30% inizialmente minacciato da Trump e che ha costituito la leva della sua posizione di forza nell’incontro in Scozia.

Ma quella “partita” ha messo a segno altri vantaggi per il vincitore statunitense. Non tutto è chiaro nell’immediato post “accordo”. Poiché in queste materie i dettagli sono esattamente i luoghi dove si annida il diavolo – come dice il noto proverbio popolare – saremo nuovamente chiamati ad analizzare e commentare gli esiti dell’incontro di Turnberry, sulla base di elementi più precisi che, per ora, sono stati volutamente lasciati ancora in uno stato di indeterminazione, una volta che la linea di marcia è stata comunque tracciata. Ma il prezzo che la Ue deve pagare è nella sostanza noto. I paesi Ue dovranno acquistare dagli Usa energia per un valore pari a 750 miliardi di dollari in tre anni, ovvero 250 all’anno nel triennio. Si tratta di una cifra enorme se la si confronta con il totale delle importazioni di gas e petrolio dagli Usa, che nel 2024 sono state pari a 84 miliardi. Ma soprattutto questa scelta butta per aria tutti gli impegni in materia di privilegiamento per le fonti rinnovabili in materia di produzione energetica ed i solenni impegni assunti in varie sedi internazionali. Al di là delle cifre, il disegno mi pare fin troppo trasparente. Dagli Usa arriverà in modo particolare gas naturale liquefatto e questo dovrebbe sostituire le restanti importazioni di metano russo, malgrado che la differenza di prezzo sia tutta a favore del gas “via tubo”. Ecco un’altra dimostrazione di come le scelte economiche si intrecciano con la guerra, anzi diventano esse stesse armi della medesima, ben di più delle sanzioni che hanno mostrato fin qui ben scarsa efficacia. Gli acquisti europei non dovrebbero fermarsi all’energia, ma ovviamente estendersi al materiale bellico, anche se per ora qui le cifre sono ancora più approssimate, ma già tali da fare capire quanto fosse esatto ciò che le forze pacifiste avevano da subito denunciato e cioè che il riarmo dell’Europa lo si fa arricchendo l’industria bellica di oltreoceano. Non contento di ciò Trump si è anche gloriato del fatto di avere strappato la promessa di investimenti europei negli Usa per 600 miliardi di dollari che si aggiungerebbero ai 500 già promessi dal Giappone.

In questo quadro l’Italia appare come il paese più esposto tra quelli della Ue, dopo l’Irlanda, alle conseguenze delle decisioni assunte sul campo di golf. Il celebre think tank Bruegel, tempio del pensiero finanzcapitalista, ha già stimato che l’impatto dell’innalzamento delle tariffe e degli effetti del cosiddetto minidollaro creerà seri danni ad una economia già malata come quella italiana, soprattutto per quanto riguarda i riflessi sull’occupazione. Confindustria non perde l’occasione per reclamare aiuti dal governo visto che calcola come effetto complessivo (dazi più indebolimento del biglietto verde) una perdita per l’export tricolore pari a 22,6 miliardi, considerando i macchinari, la farmaceutica, gli alimentari e gli autoveicoli i settori più colpiti. Come se non bastasse, rivolgendosi alla stampa, un trionfante Trump ha fatto subito sapere che non è impossibile in un prossimo futuro, anche ravvicinato, che i dazi sui farmaceutici possano aumentare, come pure per quanto riguarda l’elettronica di consumo e i microprocessori, in questo caso puntando lo sguardo soprattutto verso l’Estremo Oriente.

Come si vede le ambizioni di condurre controguerre commerciali si sono sciolte come neve al sole. Ed era chiaro fin dall’inizio che quella non poteva essere una strada credibile, dal momento che l’Europa è immersa profondamente in quel sistema di guerra costruito dagli States con la connivenza attiva dei principali paesi europei. O si esce da quel sistema oppure si è condannati a pagarne tutti i prezzi, salvo qualche sporadico addolcimento. La strada da imboccare avrebbe dovuto essere un’altra: sottrarsi a un mortificante iperatlantismo e volgere lo sguardo verso quell’altra parte del mondo che persino Il Sole 24 Ore ha considerato oramai come un serio tentativo di costruire una alternativa al predominio americano. Tanto più che quest’ultimo appare immerso in un profondo e irreversibile declino, pur dando colpi di coda all’impazzata, come la tigre ferita nella famosa metafora cinese d’antan.

Gli stessi obiettivi di fondo che stanno alla base del piano di Miran e quindi della trumponomics, si basano in realtà su analisi sbagliate. Non è infatti la supervalutazione del dollaro su scala internazionale la causa del declino, quanto la sovraccumulazione di capitali rispetto ai profitti attesi. Ciò non deriva da un’interpretazione deterministica della caduta generale del saggio di profitto di cui ci ha parlato Marx, ma dallo sviluppo della lotta di classe su scala internazionale, dai processi di decolonizzazione in atto da decenni, seppure in modo tutt’altro che lineare, dall’aumento di salari e condizioni di vita in quelle parti del globo che fino a pochi decenni fa erano considerate come la fabbrica del mondo e che invece oggi sono all’avanguardia sul terreno delle tecnologie più avanzate. D’altro canto la scelta della svalutazione del dollaro, mette in discussione il suo ruolo di valuta di riserva. Come pure appare fallace l’idea di riportare in patria le imprese fuoriuscite alla ricerca del minore costo del lavoro, dal momento che, per quanto povera per amplissimi strati della popolazione, gli Usa registrano una quasi piena occupazione, ovvero, direbbero gli economisti, una “disoccupazione frizionale”. Come rendere coerente la selvaggia cacciata degli immigrati in atto per dimostrare appieno l’aggressività disumana dell’amministrazione Trump, con l’esigenza di nuovo impiego ad ogni livello che un processo di reindustrializzazione richiederebbe?

Insomma Trump segue una logica, non è solo la pallina del flipper i cui movimenti le sue scelte sembrano volere interpretare. Ha un piano, ma tutt’altro che imbattibile. Alcuni commentatori economici hanno scritto in questi giorni che i dazi di Trump sono una manna dal cielo perché costringerebbero l’Europa a rivolgere le proprie attenzioni al mercato interno. A parte che non bisogna necessariamente sfasciarsi la testa per cambiare modo di pensare e di agire, una simile soluzione non sarebbe sufficiente a reggere l’urto cui la Ue è sottoposta dall’offensiva statunitense.

Tanto più che per quanto le sorti magnifiche e progressive della globalizzazione siano in crisi da tempo (almeno da vent’anni in modo più che evidente) i processi di integrazione dell’economia di per sé non sono del tutto scomparsi, anche se le catene della produzione del valore si sono allentate o addirittura spezzate, né sono facilmente né utilmente reversibili. La scelta di fondo che sta davanti all’Europa appare molto netta – e forse questo è l’unico merito di Trump -: abbandonare non solo il filoatlantismo del tutto succube, ma smetterla di pensare al mondo costruito secondo blocchi, continuamente minacciato da un nemico alle porte. E invece abbracciare con decisione la strada del multilateralismo, come stanno facendo i Brics e hanno ribadito di volere fare nel recente summit di Rio de Janeiro.

Alcuni criticano la mancanza di unità politica dei Brics, la diversità delle condizioni sociali delle loro rispettive popolazioni, le profonde differenze dei sistemi istituzionali e i vuoti di democrazia che contraddistinguono alcuni di loro.

E’ vero. Non siamo ad una riedizione della Conferenza di Bandung e di quella successiva di Belgrado della metà degli anni ’50, ove il collante era l’antimperialismo e il terzomondismo, in contrapposizione non solo all’imperialismo americano ma anche a quello che i cinesi avrebbero chiamato il socialimperialismo sovietico. Ma ciò che sembra una debolezza è in realtà la loro forza, probabilmente l’unica possibilità di riuscita, ovvero quella di non pretendere di costruire un nuovo blocco omogeneo, ma di lavorare per il multilateralismo, facendo corrispondere ad esso scelte politiche, economiche, monetarie, commerciali, proiettando il tutto in una dimensione internazionale. E’ certamente una scelta difficile, il cui esito non è affatto garantito, ma che almeno non sta in grembo agli dei bensì nell’azione di miliardi di donne e di uomini. Un percorso che non esclude affatto il potenziamento di ogni singola economia, ma al contrario la può aiutare.

Sono diversi gli economisti e gli studiosi di politica internazionale, anche tra quelli di tradizionale orientamento mainstream che in questi drammatici mesi si vanno convincendo che bisognerebbe andare in una simile direzione. Manca però una soggettività politica europea in grado di condurre un simile processo. Ma non è impossibile né vano proporsi il compito di lavorare, ognuno con le proprie modeste forze, per costruirla. Non vogliamo essere condannati a convivere con un Don Abbondio geopolitico (copyright Giuliano Noci) quale è l’attuale Unione europea.

Da transform-italia.it

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