L’inganno dell’io

16 Febbraio 2021

[Roberto Paracchini]

Immaginiamo che gli alieni esistano davvero ma senza alcuna intenzione di volerci invadere, bensì solo osservare in modo amicale. Qualcosa però sembra non funzionare a dovere.

Dai libri prodotti da una parte degli abitanti della Terra e letti dagli alieni sembrerebbe che gli esseri umani siano formati da tanti individui con identità separate e isolate le une dalle altre, mentre a un esame più rigoroso, le cose non quadrano affatto.

 Che cosa significa, si domandano, questa presunta e sbandierata divisione in tanti io, quasi che ogni persona rappresenti un mondo a sé? È veramente assurdo e incomprensibile, si dicono gli alieni: le nostre osservazioni scientifiche dicono il contrario.

 L’esempio degli alieni è tratto dal bel libro “L’inganno dell’io. Come siamo tutti collegati e perché è importante” di Tom Oliver (ilSaggiatore), di cui si parla in questo articolo. Oliver, docente di ecologia applicata all’Università di Reading e membro del comitato scientifico dell’Agenzia europea dell’ambiente, è convinto che ognuno di noi può fare la differenza per la creazione di un ambiente ecosostenibile, ma che per farlo occorra una vera e propria nuova rivoluzione copernicana che ci disarcioni dal nostro io individuale: un cambio di paradigma in grado di farci sentire intimamente interconnessi con tutto quello che ci circonda. “Sentire”, quindi non solo averne consapevolezza, bensì vivere le interconnessioni.

 Ma torniamo ai nostri alieni. Loro, ad esempio, capiscono subito che ogni persona è un’entità plurale e non singola.

 Certo ognuno di noi ha un corpo formato di carne e sangue, ma ogni persona della Terra è formata da circa 37 miliardi di cellule che si rinnovano in continuazione; mentre al nostro interno e sulla pelle – osservano anche gli alieni – abbiamo un numero dieci volte superiore di batteri (il microbioma), indispensabili per la nostra vita a tutti i livelli, dal sistema immunitario alla salute mentale; e anche di virus siamo sempre pieni, come dimostra il loro determinante ruolo nello sviluppo della placenta.

 Non solo: ogni persona ha circa 23-24mila geni; i batteri, nostri intimi coloni, ne hanno invece complessivamente da 6 a 8 milioni e alcuni studiosi iniziano a considerarli parte integrante del nostro genoma.  Ma restringiamo l’attenzione al DNA umano, alle istruzioni che codificano per il progetto corporeo: ci fanno essere individui singoli e unici? Non proprio: “Come le molecole del corpo anche il nostro codice genetico scorre con estrema fluidità nelle ramificazioni dell’albero della vita – precisa Oliver – spostandosi pure da un ramo all’altro, tanto da somigliare più a un’applicazione per computer situata nel cloud della rete”. Oggi sappiamo anche che “il nostro corpo porta in sé una piccola porzione di quel codice che è stato tagliato e poi incollato in un’entità transitoria”, la nostra. Nel nostro codice genetico troviamo poi anche tracce del taglia e cuci dell’evoluzione, come le interrelazioni avute dai Sapiens coi Neanderthal. Inoltre la dice lunga sull’interconnessione di tutti gli esseri viventi il fatto che il 70 per cento del nostro DNA sia, ad esempio, simile a quello del moscerino della frutta.

 Le varie specie viventi, quindi, “sono collegate non solo perché hanno antenati comuni ma in quanto condividono gran parte della medesima informazione nel loro codice genetico”.  In più oggi scopriamo che il trasferimento dei geni avviene anche in modo orizzontale. Lo afferma il microbiologo Carl Woese che nota come la discendenza evolutiva non si manifesti soltanto nel senso lineare darwiniano comunemente inteso, ma che questa ricordi molto di più una rete. Ipotesi che la microbiologa Lynn Margulis ha sviluppato ulteriormente affermando che l’evoluzione rappresenta il cambiamento di un “singolo essere multidimensionale che cresce sino a ricoprire l’intera superficie terrestre”.  

 Ma se il codice del DNA, si chiede Tom Oliver, non rappresenta affatto l’identità esclusiva di ogni essere umano “che cosa possiamo dire della mente che, senza dubbio, è senz’altro nostra?”. Che i progressi raggiunti dalla psicologia e dalle neuroscienze suggeriscono “che non abbiamo un’identità indipendente e immutabile” nonostante le affermazioni che le persone fanno in genere su sé stesse e sulla propria presunta e individuale identità. Al contrario, come i nostri amici alieni hanno subito capito, noi umani “siamo un fascio di credenze e autoriflessioni in flusso costante. La nostra identità è contingente al periodo del giorno, a dove ci troviamo e con chi”. Pertanto “la nostra auto identità è una conseguenza, in continua evoluzione, dell’ambiente in cui siamo immersi. E l’ambiente è in larga misura determinato dagli altri”.

 Attenzione, però, essere strettamente interconnessi col mondo non significa affatto sminuire il nostro valore. Tutt’altro, semmai ci assegna un valore ancora più grande visto che noi “siamo fatti dello stesso materiale delle stelle”. Infatti gli elementi che costituiscono i nostri corpi (principalmente ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio e fosforo) “sono derivati inizialmente dalla trasformazione dell’idrogeno e dell’elio, i due elementi prodotti dal Big Bang all’origine dell’universo”.

 Ma allora perché siamo tutti così legati a questo io individuale che ci illude sulla nostra arbitraria centrale identità, impedendoci di vedere l’intima interconnessione col resto del reale e passare dall’io al noi? Secondo Oliver c’è un vizio culturale fondativo che caratterizza soprattutto la cultura occidentale, ma che non è sempre stato negativo, sebbene oggi sia rovinoso. Vediamo.

 Da un lato c’è il fatto che “la percezione di un io interiore coerente e immutabile” sia, sì, un’illusione, che però nella storia passata si è dimostrata “adattativa”: uno strumento per sopravvivere e grazie al quale “l’umanità è riuscita a prosperare sviluppando comportamenti sofisticati e reti sociali produttive” a beneficio di tutti. Dall’altro e in parallelo va rilevato che questi comportamenti, derivati da una “interpretazione del mondo riduzionistica individualistica”, hanno grandemente stimolato lo sviluppo delle scienze che hanno caratterizzato la prima e la seconda rivoluzione industriale.

 Oggi, però, la conoscenza del reale sta velocemente cambiando: la meccanica quantistica, le teorie dei sistemi complessi, le neuroscienze e la microbiologia – solo per fare alcuni esempi – mostrano che il non considerare l’intima interconnessione che caratterizza tutta la realtà, non solo bloccherebbe la conoscenza e il progresso scientifico, ma creerebbe un mondo culturalmente sempre più arido con conseguenze negative a cascata, sino a causarne l’implosione prodotta da una possibile catastrofe ecologica.

 Con “L’inganno dell’io” Tom Oliver suggerisce la necessità urgente dell’abbandono dell’illusione della falsa centralità dell’io individualistico. Questo in favore di una concezione del mondo che veda nella consapevolezza del rapporto continuo tra tutti gli esseri viventi, un modo per apprezzare maggiormente la complessità e la bellezza del mondo naturale; uno “strumento efficace per abbandonare una visione del mondo ristretta ed egoistica”. Un passo in più verso quel qualcosa che viene chiamato coltivazione della felicità.

                                                                                                                    

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