Ottana chiude: l’epilogo di un fallimento
16 Settembre 2017Francesco Casula
Con il licenziamento dei 58 operai di Ottana Polimeri, e, nell’aprile 2018, di altri 70 operai, i lavoratori della centrale termoelettrica Ottana Energia, quando termineranno la cassa integrazione e riceveranno a loro volta le lettere di benservito, si chiude definitivamente, anche simbolicamente, la fine di un’illusione. E così il sogno industriale di Ottana e della Sardegna centrale sì è trasformato in un incubo. In un fallimento totale. Si è trattato di una vera rivoluzione (e devastazione) antropologica e culturale prima ancora che economica e sociale Quel progetto infatti non solo non ha risolto il problema dell’occupazione (l’industria doveva soprattutto creare lavoro oltre che reddito e benessere) ma ha devastato e depauperato il territorio, la risorsa più pregiata che l’Isola possiede.
Ha degradato e inquinato l’ambiente, ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali di quella zona. Distruggendo inoltre il tessuto economico tradizionale, gli artigiani del legno e del ferro ecc. Stessa sorte hanno subito nel tempo persino i commercianti: persino i Vinci hanno dovuto ammainare bandiera pur rappresentando aziende leader nel settore della distribuzione. Ha infine attentato alla cultura e alla identità etno-nazionale dei sardi, tentando di eliminare le identità-diversità-specificità etniche, linguistiche, culturali e storiche, con il pretesto dei combattere la violenza e il banditismo. Ottana, riassume il fallimento dell’industrializzazione petrolchimica in Sardegna e il colonialismo del territorio.
Per capirla è necessario fare un po’ di storia. Alla fine degli anni ’60 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul banditismo, presieduta dal senatore Medici individuò nell’ambiente agropastorale e nelle condizioni economiche e sociali del Nuorese la causa prima del banditismo: di qui la scelta di Ottana e della grande industria che avrebbe dovuto trasformare il pastore in operario, con la tuta e non più con la mastruca. “Nella Rinascita c’è un posto anche per te” si promise a tutti i barbaricini e ai disoccupati in primis.. Furono previsti e promessi 8-10 mila posti di lavoro. Perché il fallimento? Vi sono motivi di ordine generale: si è trattato di uno sviluppo tutto giocato sulla grande industria, di grandi gruppi monopolistici pubblici (Eni) e privati (SIR di Rovelli), inficiato dal pregiudizio che solo la grande industria avrebbe creato in Sardegna occupazione e sviluppo; si è trattato di grandi industrie filiali e succursali di grandi complessi statali che “esportavano” nell’Isola manager, dirigenti, personale qualificato, tecnologie. Quindi i centri economici-finanziari-decisionali stavano fuori non in Sardegna.
Si è trattato di industrie che lavoravano – soprattutto quelle chimiche – materie prime di cui la Sardegna non disponeva e dunque soggette alle variazioni e alle crisi del mercato: è bastato l’aumento del petrolio e/o la dotazione da parte dei paesi produttori di industrie di trasformazione per mettere in crisi Ottana e company, (vedi crisi petrolifera anni settanta). Infine si è trattato di industrie senza alcun rapporto e collegamento con il territorio e le risorse locali. Che dunque non crea sviluppo endogeno, autocentrato. Soprattutto si è trattato di industrie ad alta intensità di capitale (si è arrivati a un miliardo di lire per posto di lavoro e siamo prima dell’euro!) e poca intensità di mano d’opera. Senza stimoli per il mercato interno, senza creazione di indotto proprio perché era una industrializzazione che prevedeva solo le prime lavorazioni o comunque fasi limitate del ciclo produttivo: raffinerie o produzione di etilene (fibre), quando tutti gli economisti sostengono che è nelle seconde e terze lavorazioni ma soprattutto nella chimica fine e farmaceutica che si ha molto sviluppo, ovvero: molta occupazione, poca intensità di capitale ma soprattutto molta ricchezza che deriva dal “valore aggiunto”.
Nonostante le chiacchiere e le richieste dei Sindacati italiani – peraltro mai troppo convinte – di avere in Sardegna le seconde e terze lavorazioni o la chimica fine, l’Isola ha sempre continuato con la petrolchimica di base e dunque ha continuato a operare quel meccanismo infernale che gli economisti chiamano “lo sviluppo ineguale”, secondo cui la Sardegna – e molte zone del Meridione – produce ed esporta semilavorati (per es. petrolio raffinato, a basso valore aggiunto) mentre importa prodotti finiti (per esempio medicine, ad alto valore aggiunto) in questo scambio ineguale la Sardegna continua a impoverirsi e il Nord Italia dove si fanno le seconde e terze lavorazioni e si produce chimica fine, si arricchisce viepiù. Per convincersi basta guardare i dati ISTAT, di ieri come di oggi, per quanto attiene al PIL e non solo. Vi sono infine motivi particolari legati al contesto specidico di Ottana e della Sardegna centrale: ad iniziare dal fatto che sotto la tuta dell’operaio chimico (o metalmeccanico che fosse) c’era sempre il pastore, il contadino, l’agricoltore.
A parte lo stagionale aumento dell’assenteismo (anche oltre il 30 per cento), nessuno aveva fatto caso che per il trasporto delle materie prime in arrivo e in partenza era stato scelto un punto praticamente inaccessibile se non a costi proibitivi. Poche strade attrezzate oltre la Carlo Felice, lontane le banchine (Porto Torres), fiumi senz’acqua (il Tirso). Terzo, il personale: per tenere in marcia le macchine bisognava contare su un grande esercito di pendolari e Macomer nuovo capoluogo del centro Sardegna non poteva ancora garantire nulla in termini di servizi a valle dell’industria chimica. Dopo pochi anni ci si è resi conto che avevano visto giusto ed erano stati lungimiranti e avveduti tutti coloro che avevano criticato quella scelta: penso in modo particolare agli intellettuali che ruotavano intorno alla Rivista “Nazione Sarda”: Cicitu Masala, Eliseo Spiga, Antonello Satta, Giovanni Lilliu in primis. Ma furono profeti inascoltati.