Portoscuso: soldi pubblici sprecati, inquinamento, salute e paracarri

1 Marzo 2017
Stefano Deliperi

Incredibile. Donatella Emma Ignazia Spano, Assessore della Difesa dell’Ambiente della Regione autonoma della Sardegna, e Tore Cherchi, già parlamentare della Repubblica nonché amministratore locale sulcitano e ora coordinatore del Piano Sulcis, all’unisono magnificano i risultati della recente conferenza di servizi tenutasi presso il Ministero dell’Ambiente sulla bonifica e messa in sicurezza della falda acquifera  di Portoscuso: i costi saranno sostenuti dalle aziende che hanno inquinato.

Si tratta della banale applicazione del principio secondo cui chi inquina paga. E’ stabilito dalla legge (art. 3 ter del decreto legislativo n. 152/2006 e successive modifiche e integrazioni) e dalla normativa comunitaria. Nessun regalo, nessuna vittoria, solo l’applicazione della legge. La dice lunga su come vengano affrontati i problemi ambientali, sanitari di un’intera popolazione e della riconversione industriale.

Su connottu. Come si è sempre fatto. Industria pesante e inquinante, fuori mercato e sostenuta da fondi pubblici. Per esempio, ben 74,1 milioni di euro sui 668,6 milioni di euro del Piano Sulcis sono destinati alla ripresa dell’attività dell’Eurallumina. Ampliamento del bacino dei fanghi rossi, “solita” attività inquinante, nessuna certezza di poter vendere sul mercato internazionale l’alluminio primario.

Magari fra solo qualche anno ritorneremo punto e a capo.

Con i lavoratori ancora in cassa integrazione (tranquilli, nessuno è realmente sulla strada, per fortuna) a batter i caschi sui sampietrini romani in attesa dell’ennesimo summit in qualche Ministero.

Valeva la pena di impegnare tutti questi soldi per tenere aperte produzioni sulla cui sostenibilità economica c’erano già allora fondati dubbi? Il fatto è che di fronte a emergenze di occupazione e di reddito, l’istinto italiano, sbagliato, è di esercitare un vero e proprio accanimento terapeutico a favore dell’impresa in crisi, anche quando le prospettive di mercato sono improbabili o nulle”.

Non solo. Sono interventi che bruciano risorse pubbliche preziose e, creando false aspettative, consumano futuro. Quasi sempre sarebbe più saggio lasciare le imprese al loro destino e occuparsi invece dei lavoratori, sostenendo il loro reddito e accompagnandoli con servizi di qualità (orientamento e formazione, in primo luogo) verso una nuova occupazione”. Caspita, è vero!

Nel Sulcis e per il Sulcis non mancano proposte ragionevoli e di buon senso. Nel territorio ci sono almeno due importanti attrattori in grado di creare occupazione diffusa e sostenibile: la straordinaria dotazione di bellezze naturali e la ricchezza della storia mineraria. In più, c’è un agro-alimentare di qualità che, come in gran parte della Sardegna, può crescere ben oltre il suo livello attuale. In altre parti del mondo, Europa compresa, risorse di questa qualità e dimensione sono state sufficienti a dare reddito, occupazione, benessere a grandi comunità territoriali”. Geniale! Ma chi è che afferma queste verità di buon senso?

Francesco Pigliaru nell’agosto 2012, docente universitario ed economista, la stessa persona che da tre anni è Presidente della Regione autonoma della Sardegna e decide la prosecuzione di quel “su connottu senza alcuna prospettiva” in un “balbettio demagogico a cui abbiamo spesso assistito”. Certo, solo i paracarri non cambiano mai posizione, ma qualche spiegazione sarebbe d’obbligo.

da La Nuova Sardegna, 31 agosto 2012

Sulcis, l’ultima sfida: ora soluzioni credibili. (Francesco Pigliaru, Alessandro Lanza)

L’angoscia degli operai del Sulcis e le aspettative per un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie meritano il massimo rispetto. Ma soprattutto meritano il massimo impegno da parte delle istituzioni locali e centrali, oggi chiamate a proporre con urgenza soluzioni credibili, lontane dal balbettio demagogico a cui abbiamo spesso assistito.

Carbosulcis e Alcoa rappresentano vicende decisive per il futuro dell’isola. Per quanto riguarda il carbone, il tema è presto riassunto. Nel 1996 il Corriere della Sera pubblicò un articolo che ebbe allora molta risonanza. Nell’articolo veniva ricostruita, con dovizia di dettagli, la lunga sequenza dei contributi pubblici concessi alle miniere. Già da allora la situazione era molto critica: i soli sussidi a fondo perduto concessi dallo Stato nel decennio 1985-1995 avevano superato i 900 miliardi di lire. Cui andrebbero aggiunti, per completezza, gli interventi diretti dell’Eni (250 miliardi nel 1985), i contributi concessi dalla Regione Sardegna in tutti questi anni, e l’impegno dell’Enel ad acquistare l’energia elettrica prodotta con il carbone del Sulcis a un prezzo di oltre il cento per cento superiore al normale costo di produzione dell’impresa elettrica.

Valeva la pena di impegnare tutti questi soldi per tenere aperte produzioni sulla cui sostenibilità economica c’erano già allora fondati dubbi? Il fatto è che di fronte a emergenze di occupazione e di reddito, l’istinto italiano, sbagliato, è di esercitare un vero e proprio accanimento terapeutico a favore dell’impresa in crisi, anche quando le prospettive di mercato sono improbabili o nulle.

Sono interventi che bruciano risorse pubbliche preziose e, creando false aspettative, consumano futuro. Quasi sempre sarebbe più saggio lasciare le imprese al loro destino e occuparsi invece dei lavoratori, sostenendo il loro reddito e accompagnandoli con servizi di qualità (orientamento e formazione, in primo luogo) verso una nuova occupazione.

Per dare un’idea dell’ordine di grandezza degli sprechi che si generano per sostenere cause (imprenditoriali) dubbie, provate a immaginare cosa sarebbe successo se i soldi spesi per il carbone del Sulcis fossero stati attribuiti non all’impresa ma, appunto, ai lavoratori. Potenzialmente, ogni lavoratore avrebbe avuto a disposizione una dote iniziale di miliardo di lire, avrebbe potuto godere per vent’anni di una rendita mensile di circa 1400 euro, e a fine periodo il capitale iniziale sarebbe rimasto invariato.

Tutto questo per sottolineare che una frazione di quei soldi così malamente spesi sarebbe stata sufficiente a finanziare interventi capaci di aiutare le persone a trovare nuova occupazione.

Ma le lezioni del passato rimangono in gran parte inascoltate. Oggi come ieri, la ragione fondamentale all’origine della crisi delle miniere del Sulcis non si è modificata. E’ un carbone di scarsa qualità, ha troppo zolfo e costa troppo per poter essere utilizzato in modo economico, qualunque sia la tecnologia adottata. E si fa dunque fatica a capire perché le tecnologie di carbon sequestration, costose e incerte anche in contesti più favorevoli, ma richieste a gran voce qui in Sardegna, dovrebbero cambiare improvvisamente in meglio la situazione.

Il caso Alcoa è simile. La Sardegna non produce bauxite e, persino con favorevolissime condizioni di costo (e non è questo il caso), sarebbe anti economico importare allumina ed esportare alluminio. Non c’è un mercato al mondo in cui questo accade. Mentre si discute di Alcoa, in Russia e in Arabia Saudita – dove esiste un costo dell’energia incomparabilmente più basso – realizzano impianti grandi 5 o 6 volte lo smelter di Portovesme, con enormi economie di scala capaci di ridurre ulteriormente i costi. Il problema supera i confini regionali: riduzioni importanti di capacità produttiva sono in programma in tutta Europa.

Una classe politica seria dovrebbe dirsi e dire che ragioni strutturali e non di congiuntura impediscono che queste produzioni possano continuare a offrire un credibile futuro economico. Poi dovrebbe affrontare con urgenza il tema di cosa fare in alternativa. Nel Sulcis e per il Sulcis non mancano proposte ragionevoli e di buon senso. Nel territorio ci sono almeno due importanti attrattori in grado di creare occupazione diffusa e sostenibile: la straordinaria dotazione di bellezze naturali e la ricchezza della storia mineraria. In più, c’è un agro-alimentare di qualità che, come in gran parte della Sardegna, può crescere ben oltre il suo livello attuale. In altre parti del mondo, Europa compresa, risorse di questa qualità e dimensione sono state sufficienti a dare reddito, occupazione, benessere a grandi comunità territoriali.

Non è facile ma si può fare anche da noi. Bisogna però capire questo: che la vera emergenza per il Sulcis non è una fabbrica che va via o una miniera che chiude. E’ invece una qualità delle istituzioni che oggi non dà garanzie sufficienti a coloro che devono affrontare le profonde e anche dolorose (socialmente ed economicamente) trasformazioni necessarie per raggiungere una nuova sicurezza economica. Chi li accompagnerà in quel percorso? Chi li orienterà, offrendo loro consulenze di certificata professionalità? Chi li aiuterà ad acquisire le competenze di cui hanno bisogno per diventare piccoli imprenditori o per essere assunti in una nuova, diversa impresa? Chi gli garantirà, e a quali condizioni, un reddito nel periodo di orientamento e formazione? Chi è in grado di sboccare le bonifiche per rendere credibile la prospettiva di un decente e sostenibile sviluppo basato sulla bellezza paesaggistica del territorio? Chi si occuperà, e come, e con quali tempi, di semplificare la vita a chi vorrà investire nel Sulcis?

I territori che hanno gestito con successo crisi profonde sono stati in grado di dare risposte positive a tutte queste domande. Le loro istituzioni hanno saputo adottare con decisione una prospettiva chiara e hanno evitato che si trasformasse in occasione di sprechi e di elargizioni a favore di interessi di parte. Governo, regione e autorità territoriali dichiarino subito, ognuno per il proprio ambito di competenza, come intendono garantire che i prossimi interventi straordinari a favore del Sulcis saranno ora più efficaci rispetto a quelli del disastroso passato: per esempio, in che modo intendono sbloccare la pluriennale vicenda di bonifiche finanziate ma mai effettuate? Quali correttivi adotteranno perché il parco geo-minerario si faccia davvero e diventi un credibile attrattore internazionale? E così via. “Cosa” fare è piuttosto ovvio. “Come” riuscire a farlo, come sbloccare resistenze e interessi di parte, no.

Una migliore performance istituzionale è il passaggio obbligato e urgente per dare un futuro accettabile al Sulcis e all’intera Sardegna. In sua assenza, rimarremo incastrati in un su connottu senza alcuna prospettiva.

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