Questioni civili e organizzazioni sociali

1 Gennaio 2008

TEMPO LIBERO
Franco Uda*

Negli ultimi anni la sfera dei diritti si è notevolmente ampliata, tante sono oggi le vertenze in atto nelle quali i cittadini pongono esigenze di maggiori garanzie a tutela, appunto, dei propri diritti. La consapevolezza di essere titolari di diritti soggettivi e collettivi pone in essere un diverso rapporto tra cittadini e potere: è il passaggio da una condizione di clientes – nella quale ciascuno può al più ricevere graziose concessioni – a una di cives – nella quale emerge la consapevolezza dell’essere titolari di diritti e di poterli rivendicare. Sull’altro piatto della bilancia o, se si vuole, l’altra faccia della medaglia del patto di cittadinanza è costituita dalle responsabilità di ciascuno rispetto ad una sistema di regole condivise, fissate proprio a garanzia dei più deboli per impedire che la società possa essere caratterizzata da dinamiche di darwinismo sociale. In questa sommaria cornice dei rapporti in seno alla comunità sociale, il reato va a configurarsi come una rottura del patto di cittadinanza, un vulnus tra l’autore del reato e la comunità con la quale condivide il sistema di regole e la sfera dei propri diritti.
L’agire e il punto di osservazione delle organizzazioni sociali sono particolarmente significativi se si considera il dettato costituzionale di rieducazione e reinserimento sociale: l’azione della giustizia non come reinterpretativa di una volontà punitiva o vendicativa della comunità nei confronti dell’autore del reato, ma come riparativa rispetto al patto di cittadinanza spezzato. Nel corso degli anni il mondo del terzo settore si è spesso occupato del dopo – il reinserimento sociale e lavorativo degli ex detenuti – e dell’ora – le condizioni di vita negli istituti di pena – ma quasi mai si è affrontato il prima – le politiche di prevenzione e di welfare più in generale: è una scommessa che guarda ai diritti, alla loro universalità e reale esigibilità.
Come ci dice Zygmunt Bauman, in “Pensare sociologicamente”, spesso siamo “profondamente immersi nelle nostre esistenze di tutti i giorni, a fatica, e solo qualche volta, noi riusciamo a ragionare sul significato di quanto ci accade; e ancor meno spesso abbiamo l’opportunità di comparare la nostra esperienza privata con il destino degli altri, di vedere il sociale nell’individuale, il generale nel particolare.” Affrontare il tema della prevenzione e delle politiche sociali significa ragionare intorno a una tra le questioni che maggiormente stanno tenendo banco non solo nell’agenda politica generale ma anche tra le priorità sentite dai cittadini: il tema della sicurezza o, più propriamente, della percezione della sicurezza. La distinzione tra questi due concetti non deve apparire capziosa perché se da un lato i dati del Ministero dell’Interno dimostrano il calo oggettivo del numero dei reati legati all’offesa della persona (sicurezza), dall’altro questi sono particolarmente amplificati da un atteggiamento dei media di ricerca esasperata della spettacolarizzazione del crimine (percezione della sicurezza). A ciò si aggiunga il dato più ampio che coglie le incertezze e la precarietà di vita tipiche di un mercato del lavoro scarnificato di garanzie, estremamente precario e legato a opportunità molto rarefatte: “sentirsi sicuri”, in questa ampia accezione, risulta quindi essere un bisogno dei cittadini, la sicurezza assurge a diritto, a tema politico e in quanto tale neutro. E’ la politica che sceglie quali risposte dare a tale bisogno. Negli ultimi anni questa risposta è stata di fatto punitiva e repressiva: un aumento della carcerizzazione come pena esemplare, legata anche alla produzione di leggi criminogene nei campi dell’immigrazione e delle tossicodipendenze; un aumento di uomini e mezzi per il controllo del territorio, sempre maggiormente richiesto, di tipo poliziale e amministrativo.
Le politiche sociali come politiche di prevenzione attiva sono oggi ancora insufficienti e depauperate delle risorse di cui dovrebbero disporre, sempre più il ruolo del terzo settore appare legato a una funzione residuale sostitutiva piuttosto che sussidiaria, soprattutto quando guardiamo all’ambito territoriale nel quale tali azioni andrebbero dispiegate. Vediamo qual’è la spesa sociale in Italia: 5,4 miliardi di Euro corrispondenti allo 0,4% del PIL, per una ricaduta media di 92 Euro pro capite – con variazioni dai 334 Euro a persona in Val d’Aosta ai soli 38 Euro a testa in Calabria. Di questo 1% va ai tossicodipendenti, 2% va ai migranti, 7% va al disagio degli adulti: sommando queste tre voci otteniamo il 10% dello 0,4% del PIL, cioè lo 0,04 % del PIL, cifra infinitamente irrisoria per le necessità locali.
Quando si affronta il tema delle politiche sociali l’azione del territorio assume maggior forza poiché uil combinato disposto dalla riforma del Titolo V° della Costituzione dalla Legge 328 del 2000, recepita in Sardegna dalla Legge Regionale 23 del 2005, assegna agli EE LL, attraverso un processo di sussidiarietà verticale, un ruolo primario all’interno di un quadro complessivo che deve garantire livelli minimi uniformi su tutto il territorio nazionale; inoltre la legge attiva un processo di sussidiarietà orizzontale che chiama tutti i soggetti organizzati a concorrere alle politiche locali, mettendo insieme gli attori del territorio detentori di competenze e, nei tavoli di concertazione delineati dai piani di zona, individuando le priorità per l’azione sociale e i modelli d’intervento.
Il ruolo del territorio nel campo delle politiche sociali è davvero fondamentale: è qui che dobbiamo provare a fare stime di esperienze di successi e di fallimenti, abbiamo la necessità di pensare un rimodellamento che non riproduca lo schema repressione-punizione-cura, abbiamo la necessità di ridare un senso dell’approccio locale attraverso un’assunzione di responsabilità di tutti gli attori del processo. Pensare alle politiche di prevenzione nel locale significa fondamentalmente agire sull’esclusione sociale, in un’ottica culturale prima ancora che penale. Nelle dinamiche locali bisogna favorire la rappresentazione sociale della norma, del crimine, dell’autore del reato attraverso processi di conoscenza che mettano insieme le agenzie formative e educative dei territori: dalla scuola alla famiglia – qualunque questa sia -, ai luoghi di aggregazione sociale – dagli oratori, ai circoli, ai centri sociali; nella infrastrutturazione sociale è necessaria la migliore valorizzazione del capitale sociale che, come ci ricorda il sociologo Carlo Trigilia, è “…l’insieme delle relazioni sociali di cui una persona, una istituzione pubblica, un impresa o un soggetto del terzo settore dispone in un determinato momento. […] Attraverso il capitale delle relazioni si rendono disponibili risorse cognitive, come le informazioni o la fiducia, che permettono agli attori di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili”.
Il ruolo che attende il terzo settore scaturisce da tutto ciò e rimanda a una idea di società, di rapporti e relazioni tra gli individui che assegnano all’ordito dei legami di rete, alla capacità di costruire ponti il ruolo privilegiato e principale nel dispiegamento della propria mission, in contrapposizione ai legami che derivano da dinamiche di mera funzionalità e opportunità: per dirla con Putnam, la prevalenza del bridging rispetto al bonding. E’ in un’ottica di sistema che saremo chiamati ad agire e nel prossimo futuro la vera sfida sarà di contribuire, attraverso l’azione democratica delle organizzazioni di massa, alla costruzione dello spazio pubblico: il panorama e la narrazione sociale. Il panorama sociale è sia la rappresentazione dei bisogni sociali, dei percorsi individuali e collettivi nei e sui territori, delle organizzazioni che agiscono sul e nel disagio sociale, sia le trasformazioni del welfare state, del sociale allargato e della solidarietà all’interno dell’immaginario collettivo costruito e ricostruito dai media e in particolare delle narrazioni mediate. La sfida è di ordine non solo culturale e di senso comune, ma anche di approfondimento e comprensione delle relazioni fra le narrazioni dei territori, dei media e delle singole soggettività (individui, gruppi e organizzazioni). La narrazione sociale, prendendo la felice definizione che ne dà la sociologa Gabriella Turnaturi, “…mette in scena non solo ciò che è, ma anche ciò che potrebbe essere e quindi i mondi possibili che continuamente ci sfiorano e che, nonostante tutto, non vediamo se non attraverso l’immaginazione. […] E’ solo attraverso la finzione che, paradossalmente, idee, categorie e concetti acquisiscono concretezza, si fanno carne e sangue. [….] La narrazione è un metodo di conoscenza in quanto ci mostra l’interconnessione di ciascuno con tutti, di tutti con tutto”.
Le organizzazioni sociali debbono quindi avere la capacità di destrutturare l’esistente, la realtà per come ci è data, e per come altri la vogliono rappresentare, per ricostruire dinamiche culturali e prassi differenti.
“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, ricordo, narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: ‘non c’è altro da vedere’, sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturato, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.” (Josè Saramago, Viaggio in Portogallo).

* Presidente regionale Arci e responsabile nazionale delle politiche sulla giustizia dell’Arci

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