Radiazioni comuniste

16 Novembre 2011

Pietro Ingrao

Nel 1969, proprio in questi giorni, ci fu l’allontanamento del Manifesto dal Partito Comunista. La separazione avvenne sia attraverso la radiazione di alcuni compagni sia con l’autoradiazione di altri: si trattò comunque di un grave atto di violenza. Di questa vicenda si è parlato spesso nel corso di questi anni. Possiamo dire che il tempo ha rimarginato in gran parte quella ferita anche se i rapporti tra diversi compagni che hanno vissuto quella esperienza si sono modificati.
Pubblichiamo una parte dell’intervista rilasciata da Pietro Ingrao alla rivista del Manifesto in occasione della morte di Luigi Pintor. E vi invitiamo nel contempo a conoscere il nuovo sito di Pietro Ingrao (red)

…Qui agì il mio errore pesante, e a suo modo misero. Io mantenevo ancora un contatto stretto con i miei compagni di lotta dell’XI, anche se avvertivo una divergenza nella valutazione degli eventi, prima ancora che nelle tattiche. I compagni del «Manifesto» avevano messo in campo e Rossana lo racconta limpidamente qui a fianco – un mensile: singolare anche, e coraggioso. Non capii bene se essi avessero misurato fino in fondo le conseguenze dell’iniziativa. Ma nonostante le mezze parole, le concessioni vaghe, le espressioni turbate o compunte di via Botteghe Oscure – dove Berlinguer già era insediato praticamente come segretario – io ero convinto che il gruppo dirigente quegli eretici del «Manifesto» li avrebbe espulsi dal partito. Lo dissi brutalmente e tenacemente ai miei amici.

Il mio errore grave fu nello schierarmi: quando – giunti allo scontro in Comitato centrale votai a favore della radiazione del gruppo del «Manifesto»: e – a guardarlo oggi da lontano – nulla davvero mi costringeva a quel gesto di capitolazione. Agì qualcosa di profondo: l’idea di una politica non solo concentrata rigidamente, nelle sue scelte fondamentali, in un ristretto gruppo dirigente, ma vista come blocco compatto, che non sopportava la divergenza e chiedeva agli adepti il riconoscimento pubblico della sua santità. Un tale `errore’ non poteva durare. Per Botteghe Oscure doveva essere confutato pubblicamente: altrimenti sorgeva una minaccia per la causa. Qui pesava duramente tutta l’eredità – non cancellata -, tutta la tragica tradizione del leninismo-stalinismo (ambedue), che pure confliggeva clamorosamente con la ricchezza dissonante del movimento operaio di due secoli.
E, per essere chiari, l’errore mio profondo non stava solo e soltanto in quell’accodamento repressivo, ma in una radice più lontana: nell’accettare quella negazione del confronto libero delle differenze, quel bisogno del dibattito pubblico e riconosciuto sui dilemmi e sulle alternative di una rivoluzione sociale. Qui il mio errore fu profondo La costruzione (ardua) di un soggetto sociale alternativo e durevole non poteva svolgersi e sostenersi senza il confronto e l’urto che si esprime attraverso lo spirito di `frazione’: giusta, sacrosanta parola – ora lo vedo – che segna sempre la costruzione di un’ipotesi dichiarata di `progetto sociale’, e quindi di una ricerca che per essere feconda deve dichiararsi. E del resto partito e frazioni non potevano essere dissociabili l’uno dall’altro senza sfociare in soggettività repressive o mummificate.

Perciò il mio errore aveva radici profonde: indicava un grave limite storico, e tutta la pesantezza, distruttivo-repressiva, che in un mondo politico ricco di inventiva, come era quello del comunismo italiano, aveva assunto il retaggio del leninismo-stalinismo.

Ma votando contro la radiazione del «Manifesto» non saresti finito fuori dal partito anche tu?
Non credo. Altri non votarono la radiazione e restarono nel famoso e tormentato Pci. Mi mancarono allora coraggio e immaginazione.
I miei ex compagni del «Manifesto» invece questa l’avevano e Pintor diede molto nell’affermarsi clamoroso di quel foglio, perché nei suoi interventi, nei suoi famosi editoriali, aveva una capacità straordinaria di intrecciare la notazione quotidiana, quasi di cronaca (persino vicino all’ovvio!) e poi lo scatto del pensiero generale, che scavalcava anche la strettoia politica, per evocare una condizione umana.
Questo fu suo: questo incrocio tra la notazione del vissuto banale e la rappresentazione del nocciolo generale.

Hai scritto che era un «eversore». Perché?

Perché mi sembrava avesse dentro il suo guscio un dubbio sull’ordine, o meglio sull’architettura delle cose. Nei suoi romanzi – o memorie? – ci sono a un tratto come delle `sentenze’ (nel doppio senso: di moralità generali o decisioni sovrane e fatali prese non si sa dove) in cui il seguito delle parole si asciuga: si restringe a `massima’ sapienziale o addirittura a ghiaccia constatazione. Non ho mai compreso bene come uno che si portasse all’interno quel livello di dubbio avesse poi il gusto così forte dell’intervento battente sul giornale, della presenza persino quotidiana nell’arena di lotta. Detto assai sottovoce: sembra difficile immaginare come abbia potuto addormentarsi nella morte.

È perché mi sembrava che avesse una potente passione per l’agorà. Forse oggi respingerebbe questo nome: ma era un uomo pubblico.
Alcune volte l’ho visto in mezzo alla sua gente, alla sua parte. Mi pareva che mutasse volto. Si abbandonava al contatto umano, stavo per dire alla sua corrente, al mondo (posso dire: indisciplinato?) che l’amava in modo struggente. Era come se avesse bisogno di dare spazio al suo estro politico, a una relazione che non fosse fabbricata solo con il metro e con gli indici Dow Jones.
Del resto adesso lascio stare Pintor: è figura troppo asimmetrica, troppo singolare nella sua combinazione di talento e di passioni, di pamphlettista e di romanziere, di minoritario per tendenza e pure così `kantiano’, da essere in alcuni passaggi dei suoi libri persino gnomico.

Prima però ti interrompo io, con una domanda un po’ rozza. Tu e Pintor siete molto diversi. Dove sta la differenza? E tutti e due siete stati ostinatamente militanti.
Sarei tentato di risponderti con una risposta `geografica’. Io sono uomo di monti abbastanza brulli elevati su una costa pingue, anfrattuosa, esposta alle incursioni di saraceni, normanni, aragonesi, austriaci e giù di lì. Luigi è nato in un’isola, che ha – come dire?- le sue stimmate nel Mediterraneo, ed è – lui – di casato nobile. Stirpe di generali, custodi delle sacre corti.
Io quando s’è rotta le gambe – palesemente – la `giraffa’ comunista italiana sono andato a frugare in Europa: ancora sul `modello di sviluppo’ e su una organizzazione strutturata di classe, capace però di poggiare su sistemi di rappresentanza politico-sociale multipla e progressiva: sempre con l’assillo di incidere sulla trama complessa dei poteri politici (nazionali e sovranazionali) in cui si articola e agisce il nucleo dominante del capitalismo mondiale. Una lettura – diciamo così – puramente `economico-classista’ non è mai riuscita a entrare nella mia zucca. Qui io resto incollato persino a una lettura elementare del `gramscismo’. E ancora oggi mi stringe l’assillo dei luoghi politici (o – se si vuole – economico-politici) in cui far passare una strategia opposta a quella dell’impero americano: per essere sincero, sempre con una forte riserva sulla legittimità delle regole, e sulla validità dei codici che io stesso, in Italia, ho contribuito indefessamente a costruire. Per giudici e regole non ho patito mai idolatrie. Li accetto, li riconosco, perché non so andare oltre. In fondo anche mio nonno garibaldino fu un siciliano che non riuscì ad andare oltre Roma. Infine, per me, agisce la persuasione che le regole sono espedienti approssimativi rispetto all’indicibile dell’accadere e oscillare umano. Certo: alla fin fine mi sono adattato e mi adatto. In questa visione tutto sommato abbastanza precaria delle cose, il dubbio è vitale: e quindi conta avere bene a mente che ci muoviamo per approssimazioni assai sommarie. Perciò la poesia è la scienza più esatta.
Ecco perché il mio errore – di me che penso, al fondo, in questo modo – risultava clamoroso quando in quel 1969 cedevo nientemeno che al `centralismo democratico’, e abbandonavo la necessità essenziale del confronto e del dubbio.
Lì moriva anche la mia curiosità di persona: quella domanda perenne che è la passione più grande che mi sono trascinata nella giornata. La domanda, guardando la strada: chi sei tu che sfili per il viale della città? Che cerchi, che vuoi, ora che guardi per aria? E che si dicono quei quattro stravaccati sulla panchina? Può essere questa l’ora migliore per origliare le vostre risposte, stante il chiasso che fanno le televisioni?

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