I ragazzi di via Buonarroti

1 Giugno 2016
resistenza
Claudio Natoli

Nell’ambito della storia dell’antifascismo in Europa, il caso italiano  si segnala per tre fondamentali elementi di specificità. Il primo è costituito dal fatto che a partire dalla metà degli anni ’30, dapprima nella fase di crescita del Fronte popolare in Francia, e poi nella partecipazione alla guerra civile spagnola, si stabilirono  e si consolidarono tra le principali forze dell’emigrazione legami politici e ideali che avrebbero resistito non solo ai contraccolpi delle sconfitte, ma anche alle stesse lacerazioni seguite alla diaspora dei primi due anni della seconda guerra mondiale. Il secondo aspetto da sottolineare è che l’antifascismo costituì il terreno di incontro di una molteplicità di componenti politiche, sociali, culturali e generazionali, ciascuna con una propria storia ed una autonoma elaborazione. Per tutti questi soggetti  l’approdo unitario non rappresentò una rinuncia alla propria identità o una convergenza di segno meramente negativo, o peggio il frutto di un fantomatico complotto comunista, come non si stancano di ripetere, con grande clamore mediatico, storici di fede “neoliberale” e pubblicisti più o meno improvvisati. Rappresentò invece la progressiva acquisizione di un programma positivo per la rinascita del paese e di un insieme di valori condivisi antitetici a quelli impersonati dal fascismo. Questo processo, in cui confluirono la nuova generazione antifascista formatasi in Italia alla fine degli anni ’30 e nel corso stesso della guerra e le componenti cattoliche più progressiste rimaste estranee all’antifascismo storico, avrebbe trovato espressione dapprima nel movimento della Resistenza e in seguito nell’elaborazione della Costituzione repubblicana.

Uno dei tratti caratteristici dell’antifascismo italiano sarà, nel corso degli anni ’30, l’impegno delle sue diverse componenti nella ricerca verso una democrazia profondamente rinnovata, capace di coniugare le libertà politiche e i diritti sociali, di realizzare profonde trasformazioni strutturali atte a recidere le radici  del fascismo, ma anche  di superare per questa via i limiti ristretti del vecchio Stato liberale. Se si volesse esprimere un giudizio d’insieme, non si potrà che concordare con Simona Colarizi quando ha scritto che, nel momento in cui se ne ripercorre il difficile cammino, l’antifascismo si ripropone “come momento attivo, dinamico, fattore di storia e protagonista anch’esso di un mondo che non l’ha potuto veramente e materialmente escludere, che non è riuscito a cancellarlo. Da questo itinerario emerge il quadro di una minoranza attiva, vitale e in movimento al proprio interno, che, lungi dal rimanere ancorata agli schemi politici e ideologici che si erano espressi nello Stato liberale” elabora, ricerca e prepara “una propria identità ideologica nuova, quale poi risulterà all’indomani della liberazione del paese. Non è qui possibile soffermarsi dettagliatamente sulle diverse scansioni di questo percorso, che fu attraversato da fasi quanto mai difficili e travagliate. Tuttavia, ciò qui è importante sottolineare è che il suo elemento fondante sarà l’incontro tra movimento operaio e democrazia e tra socialismo e democrazia, nonché l’elaborazione, nella seconda metà degli anni ’30, di una programma positivo per la rinascita del paese dopo la caduta del fascismo: questo programma era incentrato sulla costruzione di una democrazia nuova, e cioè, per usare le parole di Vittorio Foa, “una democrazia rinnovata, socialmente avanzata e fondata su una genuina partecipazione delle masse popolari”, un democrazia capace di superare i limiti oligarchici e l’estraneità delle classi popolari al vecchio Stato liberale e di recidere le radici economiche e sociali del fascismo.

Ma a questo punto emerge un altro tema storico di centrale rilevanza: e cioè quello dell’incontro tra i dirigenti e i quadri delle carceri e del confino, dell’illegalità e dell’emigrazione, e la nuova generazione antifascista che si andrà formando nella seconda metà degli anni ‘30 direttamente nel paese. E’ bene precisare che questa generazione avrebbe seguito un percorso che, almeno sino al 1942, si sarebbe svolto nella maggioranza dei casi non  attraverso un legame diretto con le forze dell’antifascismo storico, quanto piuttosto a contatto diretto con l’incipiente disgregazione delle basi di massa del regime già al tramonto degli anni ’30, o ancor più con la disastrosa conduzione della guerra e sotto l’impatto della catastrofe nazionale dell’8 settembre 1943.

Per tutta una prima fase, questo processo non maturò nell’area dei gruppi dell’opposizione politica organizzata, bensì nel rifiuto dell’omologazione totalitaria,  nella ricerca di spazi di libertà e di autonomia da parte di individui o di gruppi o anche in comportamenti conflittuali che si manifestavano nella “zona grigia” ai margini della legalità fascista. L’antifascismo tra i giovani nella seconda metà degli anni ’30, costituì pertanto un fenomeno estremamente complesso: la partecipazione critica ai Littoriali come luogo di confronto tra istanze di “autoriforma” interna al regime (Zangrandi) e “lavoro legale” di segno antifascista (Antonio Amendola, Alicata, Ingrao, Antonio Giolitti, Bruno Zevi, Paolo Solari), il recupero di un ruolo autonomo e conflittuale del sindacato fascista (Eugenio Curiel), l’uso degli spazi critici presenti in alcune riviste politico-letterarie (Giaime Pintor), il distacco dalla cultura ufficiale attraverso la scoperta delle avanguardie artistiche europee e della letteratura americana degli anni della “grande crisi” (Pavese e Vittorini), la ricerca di spazi di libera autodeterminazione e il rifiuto esistenziale prima ancora che politico del fascismo (la rivolta contro l’irregimentazione dei giovani), il riemergere di forme di alterità o di antifascismo apolitico di estrazione operaia e popolare, la riattivazione dell’antifascismo classista e l’incontro con il comunismo sotto l’impatto della guerra di Spagna (Pietro Amendola, Paolo Bufalini, Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Aldo Sanna), il diffondersi di nuove correnti politico-culturali e di reti interuniversitarie di giovani ( si pensi alla nascita del liberalsocialismo attorno alle figure adulte di Aldo Capitini e di Guido Calogero); e ancora, il primo enuclearsi di studenti di fede cristiana (Marisa Cinciari, Franco Rodano, Adriano Ossicini) che daranno vita in seguito al movimento dei cattolici comunisti. Si è qui in presenza di una molteplicità di percorsi individuali, esistenziali e di gruppo, in un plurale “lungo viaggio” che non dispone all’inizio di solidi punti di riferimento in un’opposizione politica radicata nel paese e nemmeno negli ambienti familiari, anche quelli connotati dal messaggio crociano. E tuttavia ciò che più colpisce in questi anni è la sorprendente convergenza nelle problematiche e nelle progettazioni per il futuro tra le forze più vive dell’antifascismo all’estero impegnate nella guerra di Spagna (ricordiamo il celebre incitamento di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna domani in Italia”) e il nuovo antifascismo che, sia pure in forme molecolari e senza un legame diretto con i partiti dell’esilio, si andava formando nel paese: anche nei giovani la scelta antifascista sarebbe avvenuta all’insegna di una ispirazione unitaria e della prospettiva di una società profondamente rinnovata, capace di coniugare libertà politiche ed emancipazione sociale delle classi lavoratrici. Come ebbe a scrivere Aldo Capitini, le idee nuove che avrebbero formato l’antifascismo dei giovani furono l’”unità dei popoli contro la guerra minacciata dal fascismo”, l’ “unità antifascista come unità popolare”, l’ “abbattimento del fascismo come rivoluzione di popolo non solo restauratrice delle libertà soppresse ma instauratrice di una democrazia nuova, basata sulla liquidazione dei gruppi monopolistici (spina dorsale delle tirannide e dell’imperialismo fascista) e sulla partecipazione al potere delle classi che ne erano state sempre escluse”. Senza l’incontro tra queste due diverse generazioni la Resistenza italiana non avrebbe potuto sviluppare i suoi tratti più originali, e cioè il suo carattere di movimento di massa, i suoi contenuti di partecipazione dal basso e di profondo rinnovamento politico e sociale che ne fecero uno dei fattori determinanti della rinascita democratica e civile del paese.

Il libro I ragazzi di via Buonarroti, di cui si discute in questa sede, ricostruisce una piccola-grande storia di quella generazione completamente nuova di giovani antifascisti che, per usare le parole di Paolo Alatri si formò nella seconda metà degli anni trenta nei licei romani del Visconti e del Tasso, nelle aule dell’università e nei Littoriali della cultura, nel momento in cui la parabola del consenso plebiscitario del regime, giunta al culmine con la proclamazione dell’Impero, era entrata nella fase discendente, e nel momento in cui le aspirazioni di emancipazione dei giovani si scontrarono con l’irregimentazione totalitaria del regime, la militarizzazione della società italiana, la svolta verso il razzismo di Stato e la preparazione accelerata della guerra a fianco delle Germania nazista. Massimo Sestili risale nella sua ricerca alla prima formazione antifascista di Enrica Filippini-Lera, Vera e Cornelio Salomon, Paolo Buffa e Paolo Petrucci, un gruppo di giovani legati in parte da vincoli di parentela, in parte da rapporti di amicizia e affettivi. Il clima che si respirava era connotato dal grande valore attribuito alla crescita individuale delle persone attraverso il messaggio universalistico della musica e della cultura, e non c’è dubbio che ciò venisse accentuato dal tratto religioso protestante degli ambienti familiari. Come scrisse Lucio Lombardo Radice in una bellissima testimonianza che risale al 1974, furono proprio la poesia e la musica il “segreto segno di riconoscimento” tra i giovani che non sopportavano più il “barbaro dominio” del fascismo. E non è una caso che il luogo dove questo avvenne fu l’Augusteo, il cui loggione costituì un punto di riferimento essenziale per l’incontro e la crescita intellettuale e morale di giovani ebrei sfuggiti alle persecuzioni non solo della Germania nazista, e che avevano trovato in Italia un “rifugio precario” e per i giovani studenti che fascisti non erano mai stati o che attraverso le più varie esperienze  avevano intrapreso la via del distacco dai miti e dalla realtà oppressiva e soffocante del regime. All’Augusteo Enrica, che proveniva da una famiglia acculturata ma certamente più tradizionalista, aveva incontrato Paolo Buffa e Paolo Petrucci e tutti insieme erano entrati in amicizia con Vittoria Giunti, Giaime Pintor, e anche con Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Aldo Sanna, che già nel 1937-38, sotto la guida più esperta di Bruno Sanguinetti, avrebbero dato vita, insieme con Pietro Amendola, al Gruppo comunista romano. E per tutti si aprirà prima o poi la questione che la poesia, la musica e l’impiego creativo del tempo libero come sorgente di libertà e di emancipazione, mano a mano che l’Italia e l’Europa precipitavano verso la catastrofe, dovevano coniugarsi con l’azione. E qui emerge non solo un rifiuto del fascismo, ma anche una rottura con un antifascismo passivo e rivolto verso il passato quale si era trasmesso attraverso gli ambiti familiari e lo stesso messaggio crociano, da cui molti di questi giovani avevano tratto la loro prima ispirazione. In sostanza è il momento della consapevolezza, per usare le parole di Laura Lombardo Radice che qui traggo dal bellissimo volume Soltanto una vita (Milano 2005), che “la cultura non basta più, ci vuole la politica” (p. 62).

Per Emma, Vera, Cornelio, i “due Paoli”, come erano affettuosamente chiamati dagli amici, un punto di passaggio essenziale fu costituito dalla persecuzione da parte del regime dell’Esercito della salvezza, che fu sciolto al momento dell’entrata in guerra dell’Italia come associazione appartenente a “Stato nemico”, con tutte le ricadute che ne derivarono nella vita familiare dei giovani valdesi. Ma il fattore determinante per il passaggio all’antifascismo attivo per questi giovani, come per molti altri, sarà costituito dalla guerra, dal crollo del regime e dalla catastrofe nazionale dell’8 settembre 1943. All’inizio, lo scenario sarà caratterizzato dalla diaspora. Paolo Petrucci sarà chiamato alle armi sul fronte africano: si trattò di una esperienza traumatica, anche se vissuta con un alto senso del dovere e di responsabilità e umanità nei confronti dei soldati a lui affidati. Pur non ancora guarito da un grave esaurimento nervoso, dopo l’8 settembre, dopo essersi battuto contro i tedeschi a Palidoro, con Paolo Buffa e Aldo Sanna,  si trasferirà al sud per prendere parte a un progettato e mai costituito Corpo volontario dell’esercito italiano che avrebbe dovuto combattere a fianco degli Alleati. Qui rincontrarono Giaime Pintor e con lui scelsero di passare nuovamente le linee con il supporto delle Special Forces britanniche, al fine di partecipare direttamente alla Resistenza e furono testimoni diretti della morte di Giaime a Castelnuovo del Volturno. Tutto ciò non spense, ma anzi rafforzò nei due Paoli la volontà di prender parte alla lotta di Liberazione e di contribuire, come scrisse Paolo Petrucci, alla nascita di una “umanità migliore e rinnovata” (p. 89). Cosicché essi furono paracadutati nel gennaio 1944 nei dintorni di Roma, per ritrovarsi con Enrica, Vera e Cornelio nella casa dei Filippini a via Buonarroti. Nel frattempo Enrica e Vera erano passate all’antifascismo attivo e alla Resistenza. La casa di via del Casaletto dei Filippini-Lera, da cui si sentiva l’eco delle fucilazioni a Forte Bravetta e abitata dallo zio Alberto, era divenuta un centro dell’antifascismo romano. Li vennero ospitati renitenti alla leva, partigiani ricercati e anche una famiglia di ebrei perseguitati, come ha testimoniato Maria Michetti, un’altra straordinaria giovane protagonista della Resistenza nella mobilitazione delle donne delle borgate e dei quartieri popolari di Roma: e qui coglierei l’occasione per rinnovare l’auspicio che l’Irsifar e le altre associazioni per la memoria  promuovano una borsa di studio a lei dedicata, che finalmente colmi il vuoto che pesa a tutt’oggi sulla sua figura, indimenticabile per tutti coloro che l’hanno conosciuta. Enrica lavorava nella stampa clandestina comunista a stretto contatto con Gioacchino Gesmundo e insieme a Vera era attivamente impegnata nel movimento degli studenti romani, che fu una componente essenziale e per certi aspetti un tratto caratterizzante della Resistenza nella capitale: e basterà qui ricordare le azioni nelle scuole e nell’università alle fine di gennaio del ’44, che sfidarono apertamente l’occupante tedesco e i fascisti di Salò, o l’altissima componente di studenti e studentesse nei Gap, tra i torturati di via Tasso e tra i fucilati a Forte Bravetta e alle Fosse Ardeatine. Ed è d’obbligo qui ricordare le figure di Ferdinando Agnini, di Orlando Posti Orlandi e degli altri giovani che dettero vita all’Associazione rivoluzionaria degli studenti romani che sono al centro della bella ricerca sulla Resistenza a Monte Sacro e a Val Melaina, che è stata promossa dal Circolo Monte Sacro (Roma, 1997), dando voce a testimoni e protagonisti di quel tempo e restituendoci, senza alcuna enfasi retorica, il senso più profondo di quella vicenda politica e umana a noi così lontana e insieme così vicina.

Sui giovani di via Buonarroti, si poteva già disporre della preziosa testimonianza e delle lettere di Enrica, che in questi giorni ci ha lasciato e a cui vorrei rivolgere un commosso ricordo, e di quelle di Vera pubblicate, a cura di Maria Lea Cavarra, in …i fiori di lillà quel giorno. Una “storia piccola”, uscito nel 1995. Per parte sua Mario Avagliano aveva pubblicato alcune lettere in lavori più recenti (Torino, 2006). E’ merito tuttavia di Massimo Sestili aver ricostruito dettagliatamente i percorsi di ciascuno dei protagonisti, in particolare di Enrica e di Vera, di Paolo Petrucci e di Paolo Buffa attraverso una nuova e più ricca documentazione: le testimonianze, le lettere, le memorie familiari, i documenti conservati presso gli archivi britannici e il materiale generosamente messo per la prima volta a disposizione da Vera. Vorrei segnalare in modo particolare le lettere inviate alla famiglia nel 1942 da Paolo Petrucci e quel suo ultimo saluto inviato ad Enrica, quasi presago della fine imminente, in cui a Regina Coeli paragona Enrica e Vera ad Antigone e alla sorella Ismene, una Ismene, precisa, “molto antigonea”. Oppure la lettera di Paolo Buffa ad Enrica inviata il 24 novembre 1943 alla vigilia della sfortunata impresa con Giaime, dove in impressionante sintonia con la celebre lettera di quest’ultimo al fratello Luigi, si traccia il testamento di un’intera generazione: “So che vi è un elevato numero di probabilità di perdere la vita – scrive Paolo- e che in ogni modo sarà una prova durissima e dolorosa, pure ho deciso di affrontarla perché tale è il dovere (non verso l’umanità come assieme di uomini, ma per l’Umanità, cioè per quei pochi che soli vivono). Se non cadrò forse mi sentirò riscattato e degno di vivere, se andrà altrimenti, la coscienza di non essermi sottratto al dovere mi aiuterà ad affrontare la prova suprema. Però, piccola mia, che sofferenza sentire schiantati e devastati anche i più intimi legami sentimentali che rendono l’esistenza sopportabile” (p. 76). Non stiamo parlando di eroi e di martiri, quanto piuttosto di giovani uomini e donne “in carne e ossa”, per riprendere una celebre espressione di Antonio Gramsci, che volevano vivere. Sarebbero seguite altre missioni, non meno rischiose, che Paolo avrebbe affrontato con lo stesso spirito, tra cui spicca quella tra Francia e Piemonte presso la brigata di  Giustizia e Libertà guidata da Nuto Revelli.

Enrica, Vera, i “due Paoli, insieme con Cornelio, fratello di Vera che l’aveva raggiunta a Roma, si ritroveranno a via Buonarroti per il breve periodo che le separerà dall’arresto il 14 febbraio 1944. Qui ioci si limiterà a ricordare le lettere e le preziose testimonianze su Via Tasso, a cui si affiancano opportunamente quelle già pubblicate, ma uniche nel loro genere, di Enrica e di Italo Zingarelli sulla razzia a Regina Coeli per le Fosse Ardeatine, che sembrano rompere le barriere del tempo e ci fanno rivivere attimo per attimo, le ansie, le voci, i rumori,  l’indicibile atrocità di quell’evento. Sulla condanna di Enrica e di Vera da parte del Tribunale militare tedesco, sulla deportazione, sul carcere di Aichach e sulla loro liberazione questo volume fornisce ulteriori significativi elementi di conoscenza, intrecciando pagine di diario e nuove lettere ai familiari  con le testimonianze di altre protagoniste. Ciò che più colpisce e la “moralità della Resistenza” che traspare nelle lettere di queste due giovani donne, come scrisse in anni lontani Thomas Mann, la ferma convinzione di contribuire alla nascita di “migliore società umana”. Sin dal suo ritorno a Regina Coeli Enrica scriveva al padre che “questa esperienza sono sicura mi renderà migliore”, che “nei momenti dolorosi e solo in questi possiamo provare noi stessi e i dolci legami con le persone amate” e che “hai la sicurezza che in me non verrà mai meno la fede e l’amore per tutto ciò che di buono, di bello, di santo è negli uomini” (p. 119). Una immagine di “ferma fiducia” nel futuro Enrica tenne a trasmettere ai suoi cari persino al momento della partenza per destinazione ignota. Il che fece scrivere da Paolo Buffa al padre di lei: “Enrica ha il fisico minuto ed apparentemente fragile, ma ha una forza d’animo eccezionale, perciò si può essere sicuri che neppure questa prova, per quanto dura possa essere, la piegherà. Io ho la certezza che essa tornerà tra pochi mesi pronta a ricominciare la vita (per quanto facciano la vita è dalla parte nostra” (pp. 140-141). A distanza di poco più di un anno, scriveva Vera ai genitori subito dopo la liberazione dal carcere: “Da domenica 29 sono libera, 14 mesi di prigione hanno avuto il coronamento più bello e luminoso che mi potessi immaginare, tanto più che non soltanto sono finite le mie sofferenze, ma stanno per terminare quelle di tutto il mondo. Un’epoca nuova di lavoro e di libertà ci attende, noi giovani siamo chiamati a ricostruire un nuovo mondo di pace e di giustizia sulle rovine di un mondo distrutto dalla guerra e dalla criminale pazzia” (p.162). E qualche settimana dopo Enrica aggiungeva: “Abbiamo sofferto tanta fame, ma ora abbiamo più del necessario, e poi di fronte a tanta sofferenza la mia diventa ben poca. Abbiamo saputo come in Italia abbiate sofferto, ma abbiamo saputo anche che i nostri partigiani hanno liberato il Nord Italia e questo ci ha riempito di orgoglio […] Vedi, anche nei momenti più tristi in carcere la serenità e la fede, una grande fede nell’avvenire non mi hanno mai abbandonata ed ora il pensiero di essere presto tra voi, carissimi, alla fede si unisce la gioia e la certezza di giorni luminosi che ci attendono” (p.164).

Nell’Italia e nell’Europa dei nostri giorni devastate dallo stravolgimento così pervasivo dei valori della Liberazione, e nel momento in cui la stessa nostra Costituzione repubblicana rischia di essere  snaturata in modo irrimediabile, queste parole possono suonare stranamente inattuali. Eppure dalla lettura di libri come questo si rafforza la convinzione che proprio da qui dovremo ripartire se vorremo tornare a immaginare e a progettare un giorno un mondo più confacente ai più elementari e profondi bisogni umani.

(*) Si pubblica qui il testo della presentazione del libro di Massimo Sestili, I ragazzi di via Buonarroti. Una storia della Resistenza, Marlin Editore, Roma 2015, svoltasi a Roma al Circolo culturale Monte Sacro il 12 marzo 2016.

Nell’immagine: disegni, il racconto della resistenza nei libri per ragazzi.

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