Ricorrenze

1 Maggio 2010

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Marco Ligas

Salvatore Cubeddu, con un intervento su Sardegna Democratica, ha ricordato come la settimana appena passata sia stata densa di ricorrenze: dal 25 aprile al primo maggio passando per il 28 aprile, Sa die de sa Sardigna. Salvatore ha aggiunto che queste feste probabilmente non sono care a tutti allo stesso modo anche se tutte dovrebbero interessarci. Ritengo che abbia ragione: non solo non sono care a tutti allo stesso modo ma Sa die de sa Sardigna, forse perché di recente istituzione o forse perché la rivolta del 1794 non fu molto significativa, continua ad essere considerata, da molti sardi, una forzatura (non escludo che qualcuno ne ignori persino l’esistenza). Penso comunque che sia importante, come suggerisce Cubeddu, occuparcene per difendere e rafforzare i significati che, a mio parere, devono avere queste feste: l’antifascismo, il diritto della Sardegna di poter fare le sue scelte senza imposizioni di nessuno, il diritto al lavoro (parlando del primo maggio mi viene più spontaneo riferirmi alla festa del lavoro, senza per questo sottovalutare la ricorrenza religiosa che coinvolge tutta la città si Cagliari).
C’è stato un periodo, nella storia della Repubblica, in cui il 25 aprile è stato vissuto con sufficienza, a volte persino con fastidio: siamo alla solita liturgia – veniva detto in occasione delle manifestazioni celebrative. Forse in quell’atteggiamento si poteva cogliere se non il ridimensionamento del valore della Resistenza un’esigenza che andasse oltre il momento della festa: la traduzione dei valori resistenziali in comportamenti che applicassero quei valori, sempre enunciati ma poco praticati. Poi le cose sono cambiate, anche perché non si è capito che le conquiste democratiche non sono eterne se non vengono alimentate da atteggiamenti coerenti. E così oggi viviamo una fase dove quei valori vengono contrastati da una classe dirigente che non solo non ha ereditato l’esperienza della resistenza ma non intende neppure assumerla come punto di riferimento della politica italiana. Il suo obiettivo è sin troppo chiaro e neppure inconfessato: ridimensionare i diritti e le libertà dei cittadini e accrescere le disuguaglianze tra le classi sociali. Queste scelte passano attraverso l’approvazione di leggi che tutelano gli interessi di chi ha il potere, le limitazioni delle libertà di informazione, i ricatti contro i lavoratori. Ecco perché l’antifascismo e le formazioni che ad esso si richiamano devono riconquistare l’ispirazione originaria della resistenza attraverso un impegno che coinvolga tutti coloro che vogliono vivere da uomini liberi, favorendo una partecipazione critica e attiva sia all’interno delle istituzioni, sia nel corpo sociale. Questa ritengo sia l’attualità della resistenza.
Il discorso sull’autonomia e l’indipendenza della Sardegna non credo che abbia premesse diverse da quelle dell’antifascismo. Noi diciamo spesso che la Sardegna è stata e continua ad essere una colonia, lo è ancora oggi nonostante i 60 anni di autonomia. In tanti, nel corso dei secoli, sono venuti nell’isola imponendo leggi e vessazioni senza trovare una resistenza che consentisse ai sardi di vivere liberi nella propria terra. Oggi molte cose sono cambiate, però continuiamo ad avere le basi militari che non sono certo funzionali alla nostra crescita, i paesaggi della nostra isola sono deturpati sia dalla speculazione edilizia sia dalla presenza di industrie inquinanti, la popolazione giovanile ha un livello di istruzione modesto, il lavoro è sempre più precario, ecc. Di chi le responsabilità? Certo, in primo luogo di chi governa il paese che ci impone una politica arrogante e lontana dai nostri bisogni. Probabilmente, fra non molto, ci faranno conoscere la decisione sulla ubicazione della centrale nucleare o del deposito delle scorie. Ma siamo proprio sicuri che i sardi siano d’accordo nell’assumere  ‘Bella ciao’ o ‘Procurad’e moderare’ come simbolo del riscatto? Io ho paura di no; purtroppo abbiamo l’esempio delle classi dirigenti locali che tutto fanno fuorché favorire il processo di indipendenza della nostra isola. Basta vedere come sono servili questi dirigenti quando si presentano proni a fianco al padrone di turno col sorriso sulle labbra, pronti ad eseguirne le consegne. Evidentemente è vero che non tutti siamo uomini liberi. E allora dobbiamo rinunciare a festeggiare Sa die de sa Sardigna come ricorrenza che ripropone il bisogno di libertà dei sardi? No, ritengo che non dobbiamo rinunciarci, piuttosto dobbiamo essere consapevoli che il ruolo che i cittadini svolgono nei processi di emancipazione non coinvolge tutti allo stesso modo, anzi possono esserci formazioni o gruppi che seguono direzioni opposte. L’appartenenza ad una entità territoriale non è di per sé una garanzia di unità sociale, è più facile che questa unità si raggiunga quando si incontrano strati sociali soggetti a condizioni di sfruttamento e di emarginazione, anche se appartenenti a entità territoriali differenti. Insomma la sardità non è una condizione sufficiente di impegno per l’indipendenza. Del resto, non si diffondono anche tra i gruppi di nuova formazione indipendentista posizioni che tendono a negare le differenze tra destra e sinistra come se la post-modernità avesse eliminato le classi sociali? Vedo inoltre un altro rischio annidarsi nelle formazioni politiche più giovani e anche nei partiti che hanno modificato, a volte stravolgendole, le precedenti strutture organizzative: quello di affidare al nuovo leader che emerge, e guarda caso è sempre più spesso una figura che può imporsi disponendo di propri strumenti di comunicazione, il ruolo di capo carismatico. È un rischio destinato a creare un duplice effetto negativo: da una parte la dipendenza culturale del gruppo che opera a stretto contatto del leader, dall’altra il rafforzamento del leader che tende a sottovalutare e a praticare sempre meno la collegialità (effetti più o meno impropri del presidenzialismo). Quanti intellettuali, anche sardi, sono riusciti e riescono a sottrarsi alle lusinghe di essere collaboratori (o dipendenti) del leader? Mi vengono in mente alcune considerazioni fatte recentemente da Asor Rosa: gli intellettuali sembrano una categoria in via di estinzione o, quando sopravvivono, danno l’impressione di essere degli ignoranti alfabetizzati.
Comunque apprezziamo le ricorrenze ma arricchiamole dei valori adeguati.
Sul diritto al lavoro ho poco da aggiungere a ciò che il manifestosardo scrive ormai da tre anni (a proposito il quindicinale inizia proprio con questo numero il suo quarto anno di vita, anche questa è una ricorrenza, seppure meno importante delle altre; facciamoci perciò gli auguri).

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