Taxi Phone

16 Aprile 2010

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Pierluigi Carta

Anche a Nantes, questa città così sviluppata, così europea e così integrante, dove tutti sembrano avere un proprio ruolo, la realtà degli immigrati è “chaude”, a volte fredda, e estenuante. Certi conflitti culturali non si sono ancora spenti, sembra che si affievoliscano alle luci dell’alba ma rinascono ogni sera più forti che mai, sotto le insegne al neon di un taxiphone. 
L’altra sera verso le 20 ero in un vicolo del centro storico, tra un piccolo ristorante e un taxiphone, con qualche lavoratore immigrato che attende in piedi il suo turno per chiamare casa. La clientela è bicolore: nord Africani, con la barba corta e definita, capelli rasati sempre di fresco con forti scalature, e i sudsahariani, Ghanesi, Guineani, Malesi, Mauritani, Ivoriani, tutti magri, neri come la notte africana dalla quale arrivano e che sembrano portare con loro in queste strade di visi pallidi.
Stanno tutti in gruppi definiti e separati, mai da soli e mai mischiati.  Tra i tavoli al fresco della sera è in corso un diverbio tra un guardiano, seppi più tardi delle sue origini malesi, e quattro algerini al tavolo che con un francese arabizzato sfottevano il suo mestiere. Il malese nella sua veste di sorvegliante, serio, impassibile ma deciso ad allontanarli, non riuscendoci si limita alle intimazioni.
Appena le voci si scaldano l’idioma arabo prende il sopravvento per gli insulti e il francese viene utilizzato per le minacce, gli algerini diventano subito cinque, poi sette e infine otto. I gestori del locale potrebbero ringraziare per l’aumento della clientela ma il malese, sempre solo e sempre serio, non sa più che fare.  Non so perché si fossero scaldati, capisco solo che il guardiano giudicava il loro comportamento inadeguato alla politica del locale e che egli stava facendo solo il suo lavoro, -sto solo facendo il mio lavoro- dice –perché non ve lo trovate anche voi un lavoro- gli algerini non avevano un impiego. Il guardiano si avvicina e parlotta un po’ con me, alleggerisce la tensione, mi dice che bisogna integrarsi e che quello non è il modo giusto; mi dice che bisogna rispettare le regole e adattarsi alla realtà locale. Si sfoga e mi racconta che li vede tutti i giorni perdere il loro tempo a bivaccare, con gli stessi vestiti addosso.  Gli algerini gli lanciano qualche altra minaccia e gli promettono che lo avrebbero aspettato alla fine del turno. –Come ragazzini- mi dice –e sono uomini di 30/35 anni-. 
Io mi chiedo di quali regole parla il malese e di quale realtà. Mi guardo intorno e vedo solo altri nord Africani, stesso colore olivastro, le solite tute da ginnastica sbiadite con tracce di calce o macchie d’olio di motore, soliti occhi un po’ flessi per l’effetto della shisha, stessi anelli placati e ammaccati, solite mani segnate, mani da lavoratore, che non toccano frequentemente una tastiera. Infatti un lavoro fisso forse non ce l’hanno ma comunque lavorano, al porto, nei magazzini, nelle stazioni. Fanno la fila per il telefono e si accalcano tra i tavoli dei Kebab con il loro atteggiamento tra il guardingo e lo sprezzante.
Quella è la loro realtà, che da quella cornetta trova un contatto fino al loro paese: -quanto ti devo mandare? 300 € vanno bene? Gli altri arrivano il mese prossimo per i libri di Chadi- Questo non è un episodio di razzismo, ma un esempio di come i differenti approcci al mondo occidentale possono scontrarsi in una terra di conquista, della loro conquista di un’esistenza accettabile.
La violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto dell’Europa, essa è stata, tra l’Ottocento ed il Novecento, un corollario della modernizzazione del Paese. Negli ultimi decenni è stata alimentata dagli effetti sociali della globalizzazione, a cominciare dall’incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze degli enormi differenziali salariali. La globalizzazione è un fenomeno che ha come scotto la migrazione, il movimento di merci e capitali è seguito forzosamente dal movimento delle persone, anche se sono solo queste ultime a morire nei crocevia della morte, o nei punti di non-diritto –come ha ammesso l’Alto Commissario ai Rifugiati delle Nazioni Unite- dove la vita umana non ha lo stesso valore che altrove. In un mondo dove le divergenze economiche diventano più aspre che mai, anche all’interno dei singoli paesi, dove la soglia della povertà assoluta –disponibilità di meno di un dollaro al giorno- tocca punte del 40%, il migrante è un individuo che cerca per se stesso e per la sua fammiglia una sussistenza accettabile. Il frutto del suo quotidiano travagliare in una società spesso inospitale sono le rimesse monetarie, che oggi incidono spesso per un terzo del PIB dei paesi in via di sviluppo. I flussi di denaro dei migranti verso i paesi d’origine ammontano al 200% del totale degli aiuti internazionali. Tanto che ormai sono gli stessi governi dei PMA –Paesi meno avanzati- ad incoraggiare pubblicamente l’emigrazione.  Nel 2000, per 60 milioni di dollari d’aiuti umanitari, la diaspora forniva dai 300 ai 500 milioni di dollari, in presa diretta verso i bisogni delle famiglie. Non si può aver fretta nel giudicare questo fenomeno, perché spesso attraverso i flussi delle rimesse si celano il riciclaggio di denaro sporco alimentato dalle reti mafiose, i traffici di persone e il contrabbando delle armi. Un esempio ne è stato la chiusura nel 2001 della compagnia al-Barakaat da parte degli USA, che gestiva una rete che si estendeva dal Golfo, alla Gran Bretagna fino agli USA. Inoltre le rimesse, con le quali si paga spesso l’istruzione dei bambini, si fornisce una protezione dalle cattive annate agricole, dai disastri ambientali o dagli eventuali embarghi, diventano sempre più spesso l’unica fonte di sussistenza per intere sezioni di un paese, andando a minare la struttura dei mercati interni e creando il mito della caccia al tesoro.  Si è già instaurato infatti un sistema di domino migratorio di cui ormai è impossibile valutarne gli sviluppi, ma che sicuramente diventa sempre più difficile da arrestare, del quale ne stanno facendo le spese, ovviamente, i paesi dalle economie più fragili, che restano spogli anche del loro unico e più naturale bene, la popolazione.

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