Un delitto fatto bene

1 Maggio 2016
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Giovanni Dettori

… et quand, affolé, il finirait par perdre
l’intelligence de ses visions,
il les a vues!
Qu’il crève dans son bondissement
par les choses inouïes et innommables :
viendront d’autres horribles travailleurs ;
ils commenceront par les horizons
où l’autre s’est affaissé !
Rimbaud a Paul Demeny – 15.5.1871.

Poco importa come l’Arco abbia chiuso –esaurite tutte le frecce ? -. Conta che per quasi mezzo secolo sia stato teso e queste frecce le abbia scagliate. Conta, a dispetto di tutto, l’intelligenza della visione, la sfida del progetto in anni di restaurazione e anime spente.

Conta averci provato. E non “per la gloria dello storico”, bensì anche semplicemente e soltanto “per coloro che verranno”: come su questo incredibile delitto fatto bene si chiude l’inchiesta ipotizzando, quasi evocando, oscuri  futuri testimoni che ne raccolgano il messaggio. Altri e diversi mietitori, altri non meno orribili lavoratori che cominceranno da imprevedibili orizzonti. Se mai verranno.

Quanto al presente, parrebbe senza possibile redenzione. Non pochi che allora, anche in Sardegna, condivisero un ventennio “formidabile”, poi ridottisi a un complice silenzio, persero il loro orgoglio di quei giorni: morti come uomini avanti che morisse il loro corpo. Perduta anche la memoria di quella che era stata la “microstoria di un popolo”.

Rimane, di quegli anni, il “documento”, il messaggio alla deriva dei sopravvissuti, di quelli che in un teatro sardo e nel suo pubblico hanno creduto e temeraria-mente scommesso. I candidi “noi credevamo”. I militanti artistici, i mattatori che, rovesciando l’ordine delle cose, pagavano per recitare.

Rimangono i versi amari di poeti “appartati”, senza bacche d’alloro né rango, mai deputati a parlare, e che nondimeno mai hanno taciuto. Consegnandosi allo Spirito del tempo, accodandosi alle congiure del silenzio.

Ospite precario ai bordi di una città dove la sua parola non aveva corso e il suo teatro non aveva titolo, Mario Faticoni porta ancora una volta all’orecchio del Ponente la conchiglia della sua memoria: Un delitto fatto bene – storie, protagonisti, misfatti, Delfino editore, 2016.

Cinquant’anni di teatro in Sardegna: dopo “Suono di pietra” del 2010, “Tumulti quotidiani” del 2009, “Teatro contemporaneo in Sardegna” del 2003 …

In questo rosario di memorie del fuoco cade anche “Svegliatevi sardi!” del 2013, un’intervista a Costantino Nivola in presa diretta a New York nel 1978.

“Il teatro è un’arte che i sardi dovrebbero coltivare -, vi sosteneva lo scultore. Non credo molto alla predisposizione dei sardi verso pittura e scultura, ma verso il teatro sì … Sì, il teatro è un’arte che i sardi dovrebbero coltivare”.

Per quanto il “coraggio di autoesaminarsi”, il coraggio dell’autocritica non sia il loro quotidiano atto di dolore: “sardi che vogliono salvare il mondo, e non pensano alla loro terra. Brigano per avere una reputazione all’estero”…

Amarezze che ritorneranno ad appena un anno da questa intervista nelle lettere a Maria Lai:

“La Sardegna nella fase che sta attraversando non ha bisogno d’arte, almeno non della nostra arte, troppi appetiti da soddisfare, appetiti da terzo mondo, naturalmente, che richiedono priorità”… E rincarando, nel 1984, un’altra sferzata: ”noi sardi siamo come i messicani continuamente alla ricerca archeologica della nostra identità. Forse abbiamo paura di affrontare la reale identità nostra di oggi”.

Era, questa, la Sardegna e il clima culturale già all’inizio degli anni ’80: ancora più sofferenza, più servilismo, meno dignità, meno vita. Fine del sogno comunitario, del vivere insieme, del con-dividere. E inizio della barbarie, del disimpegno politico, dell’atomizzazione sociale.

Se fare teatro poteva essere sembrato, tra la fine degli anni 60 e ancora tutto il 70, il mestiere forse più straordinario del mondo, diventava ora quanto meno problematico continuare. In una Sardegna, dove – stando al severo giudizio di Alberto Rodríguez – con il teatro non era mai corso buon sangue.

Contro queste evidenze, a dispetto di ogni ottusa sordità, l’indecoroso balletto delle burocrazie comunali e regionali, il battibeccare delle segreterie di partito, l’abdicazione della classe politica sarda che “importava basi militari, petrolio, trasporti su gomma, turismo da camerieri”, il facitore di prodigi  Fat decideva di tradire la vita in nome del teatro. E un diverso teatro sardo attecchiva tra terra sterile e rovo.

“Abiterò il mio nome” – fu la sua risposta ai questionari del porto. E sulle tavole del cambio ebbe solo cose inquietanti da produrre.

Accogliendo la lezione del drammaturgo spagnolo Alfonso Sastre, il Crogiuolo e il Teatro dell’Arco si sarebbero connotati come una sorta di coscienza di classe dolente e critica fronte alla perdita d’anima e alle devastazioni ambientali e umane che, fuggiti gli Dei, si abbattevano sull’Isola nel “tempo della povertà”.

Per oltre un lustro, si sarebbero prodotte e viste cose inquietanti in via Portoscalas: da Pinter a Samuel Beckett a Franco Fortini… a Guido Morselli.

Contraddicendo la sua amarezza di oggi, di uomo e di attore, per il riflusso e le mutazioni che avrebbero finito con l’intaccare anche il teatro – diventato un’altra cosa… morto ma vivo -, risalendo le varie fasi di questo delitto fatto bene, si potrebbe azzardare che la scommessa di allora – tradire per il teatro la vita – non sia stata perdente. Che ne sia valsa in qualche modo la pena. Altri attori, scrittori musicisti sono venuti. Sono cresciuti: l’apprendistato non è stato vano.

Anche se tutti quelli che a questo “delitto fatto bene” hanno contribuito col silenzio gli intralci burocratici e i boicottaggi che solitamente gelosie e invidia prescrivono – è quasi un classico -, sono venuti e verranno “altri” che saranno  in grado di giudicare senza favoritismi ma anche senza  gratuite ostilità. Per quanto non sia questo, forse, nient’altro che un ottativo del cuore nell’irriducibile pessimismo della ragione.

Eppure tutti gli inganni, i silenzi, le dimenticanze, le omissioni… alla lunga non hanno solidità alcuna. E qualsiasi delitto, per quanto fatto bene, finisce con l’avere scarsa consistenza. A guardare bene, è trasparente. Se si vorrà, se pure si riuscirà a decifrare.

Ho iniziato dal fine corsa, dal capitolo conclusivo, la lettura di quest’ultimo “prodigio” di Fat: il lascito testamentario a coloro che verranno. Punto terminale di questo fiume di memoria. Volevo sapere come andava a finire.

Di questo fiume di storie protagonisti e misfatti  ho risalito le anse e gli sbarramenti, i vortici e le calme piatte. Curioso e incredulo di quanto andavo leggendo, mi domandavo se tutto quello che mi si raccontava non fosse stato per caso il fantasticare ossessivo e la resa dei conti immaginale di un grande/simpatico narciso nei confronti di una realtà solo fantasmaticamente “ostile”.

Questo cento volte morire e sempre ritornare in vita di un “suo” teatro dentro una lunga chisciottesca avventura. Con i compagni di viaggio che di volta in volta gli sono stati vicini condividendone la buona come la malasorte. La sapienza d’Aracne della sua “soave generalessa”: Rita la tessitrice. Tutte le utopie e gli splendidi disastri di un teatro come riflesso di un’isola.

E’ un argine al tempo e all’oblio che minaccia, la memoria – come scrive Giulio Angioni -, quello nostro e quello degli altri. Un oblio che è di tutti e di sempre.  E quasi non sembra vero, oggi, che questo “prodigio”  sia stato possibile e sia avvenuto da noi, in Sardegna.

Sarà andata proprio così, come Fat vorrebbe dare ad intendere? C’è scritto, dunque è vero ironizza Biolchini. Ci sono anche paginate di reperti fotografici…

Allora: altro non resta che crederci.

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