Un No per estendere la democrazia

16 Novembre 2016
democrazia
Andrea Mura

Partiamo da un punto essenziale: la democrazia costa. Non si può ragionare in termini prettamente monetari. Anche ammettendo che con questa riforma costituzionale qualcosa si risparmi in termini di bilancio statale, come si può essere contenti di avere meno rappresentatività e quindi meno democrazia?

Si sceglie la non elettività diretta dei senatori, che verranno nominati dai partiti tra gli allineati alle segreterie, si conferma l’eliminazione delle Province, che si è già provveduto a sostituire (modificandone solo il nome) con Enti di area vasta, cancellando la componente elettiva. Si pensi alla nostra Sardegna: dovendo questa riforma passare verranno eletti solamente 3 senatori (2 Consiglieri regionali e 1 Sindaco, presumibilmente il Sindaco di Cagliari o quello di Sassari – sempreché si risolva il nodo delle incompatibilità previste dallo Statuto vigente).

Per la Città Metropolitana di Cagliari non si è votato, così pure non si voterà nelle nuove Province. Un sardo potrà votare quindi solamente per i propri rappresentanti in Consiglio comunale, in Consiglio Regionale e in Parlamento Europeo (dove oltretutto c’è un unico collegio con la Sicilia). Meno rappresentanti, quindi, meno persone che potranno portare le istanze locali nei luoghi di decisione e, per converso, più potere per i pochi rappresentanti rimasti. Quanto maggior potere avrà un deputato di una zona interna, avendo meno “concorrenza politica”?

Ma le domande vere sono: davvero i problemi dell’Italia si trovano nel testo vigente della Costituzione o comunque derivano dalla Costituzione? Davvero si ha la necessità di modificare la Costituzione per dare risposte a congiunture economiche sfavorevoli? Per “cambiare” in positivo? Per “semplificare”? I “problemi” dell’Italia risiedono nel bicameralismo o nell’autonomia regionale (perché, si ricordi, questa riforma prevede, semplificando, minori poteri alle Regioni)?

O forse sono da rinvenirsi in un capitalismo fallito, in una globalizzazione a diversi binari, in una catastrofica redistribuzione delle ricchezze? La verità, forse, è che si sta cercando di dare una risposta di facciata a problemi di carattere politico. Si pensi al fatto che alcune disposizioni le si sarebbero potute inserire semplicemente a livello di regolamenti parlamentari. La Costituzione è stata ideata come una garanzia per tutti e attenzione a modificarla con leggerezza.

Lo si è già fatto altre volte, nella storia repubblicana. Lo si è fatto per ultimo nel 2012, con l’introduzione dell’equilibrio di bilancio in Costituzione (o pareggio di bilancio come recita il titolo della legge costituzionale di modifica). Una modifica passata in sordina, con poca attenzione mediatica e senza troppi dibattiti pubblici, approvata in Parlamento quasi all’unanimità, impedendo il pronunciamento dei cittadini tramite referendum, giustificata con la necessità di adeguarsi agli obblighi presi in sede europea con il c.d. Fiscal Compact (in realtà gli impegni erano già vincolanti senza bisogno dell’inserimento in Costituzione).

Nel dibattito referendario si è richiamato spesso il documento del 2013 della Jp Morgan, la banca d’affari mondiale, intitolato “Aggiustamenti nell’area euro”, che tra le altre recita: «i sistemi politici dei Paesi del Sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea».

E ancora: «le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo (…). I sistemi politici e costituzionali del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi».

Il diritto di protestare. Ancora l’agenzia di rating Fitch o la banca d’affari Goldman Sachs usano toni apocalittici in riferimento alle banche in caso di no alla riforma. Ancor di più dopo questi avvisi provenienti dal mondo della finanza, che ormai influenza notevolmente la politica, dovrebbero mettere sull’attenti e dovrebbero far riflettere sul vero significato di questa riforma: indebolire gli equilibri presenti in Costituzione, far passare il messaggio che il testo costituzionale possa essere modificato per risolvere problemi congiunturali, così, con leggerezza, anche se non fatto tanto bene (gli stessi sostenitori del sì, chi più chi meno, definiscono negativamente certi aspetti della riforma ma si accontentano del complesso o son spinti da logiche di affiliazione).

No, la Costituzione non può essere un testo da modificare con leggerezza. Quella stessa Costituzione, pensata dopo la tragica esperienza fascista, ideata da persone che, a usar le parole di John Rawls, si trovavano di fronte a un “velo d’ignoranza” in quanto non sapevano quanto avrebbero pesato dopo e idearono un forte sistema di pesi e contrappesi. La Costituzione è la nostra più grande garanzia, un nostro punto di riferimento importante, la nostra Bibbia laica. L’aspetto più positivo di questa riforma è che ha spinto in questi mesi molti italiani a leggere la Costituzione, a parlare di Costituzione, a interessarsi a essa. Ma la Costituzione non merita di essere stravolta bensì solo di essere attuata e rispettata. L’attuazione della Costituzione, quello sarebbe il vero “cambiamento”, di cui tanto si parla.

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