Una conca una berritta

16 Novembre 2011

Alfonso Stiglitz

In questi giorni torna di attualità il detto “Centu concas, centu berritas”, che un colonialista spagnolo rese in modo più esplicitamente negativo con il celebre “pocos, locos” e, soprattutto, “mal unidos”. Sono un po’ i luoghi comuni, talvolta trasformati in proverbi, che si usano per indicare una sorta di anarchia congenita di noi sardi, naturaliter privi di capacità di gestire il futuro, per non parlare del presente. È un po’ quello che mi viene in mente in questi giorni, decisamente caotici, molto grigi, e non solo per il colore del cielo, nei quali si sfalda un ceto politico e si risvegliano le indignazioni, secondo ricorrenze cicliche. E sono riflessioni che mi vengono in mente come l’altra faccia della violenza reazionaria di cui ho scritto in precedenza; espressioni di una politica il cui risultato porta alla cancellazione della rappresentanza, della possibilità di ciascuno di noi cento di essere attori del nostro destino.
Il detto sardo, ma anche latino (quot homines tot sententiae), è per me un richiamo al principio, che potremo definire liberale (in un giornale comunista!): un uomo un voto, per il quale la massa indifferenziata si trasforma in cittadinanza; ciascuno di noi è attore delle decisioni che vengono prese, tramite il voto e le altre forme di partecipazione.
In un momento in cui la crisi economica e sociale ci attanaglia e le differenze tra chi detiene il potere politico, economico e militare e gli altri si sono approfondite in dimensioni mai viste prima, la reazione generale è quella della ripulsa, dell’indignazione, della voglia di fare qualcosa per cambiare la situazione e riequilibrare il tessuto che ci tiene uniti. L’emblema della distanza che divide il ceto politico dal resto della cittadinanza, divisione per certi versi più virtuale che reale, è l’attuale legge politica, nella quale i nostri massimi rappresentanti, i parlamentari, sono nominati e non scelti da noi. Un sistema fintamente bipolare che, allo stesso tempo, delegittima, nella sostanza, chi governa proprio perché non è eletto. La conseguenza inevitabile è stata il ruolo di commissariamento che l’economia sta svolgendo, nel quale è la Banca Centrale Europea a stabilire chi e come va governato il paese e a porre i paletti della nostra democrazia.
L’indignazione che sta riempiendo le nostre piazze già da un po’ di tempo, preceduta e, forse, preparata da un’ampia pubblicistica e da campagne nei mass media, efficaci quanto di sapore finto populista, stanno portando ad alcuni risultati sui quali è bene fare qualche riflessione, perché l’assalto alla politica ha un punto di partenza certo, l’insopportabilità della situazione di disuguaglianza, ma non ha un punto di arrivo altrettanto chiaro.
La risposta a questa situazione, infatti, non ha portato a una diversa legge elettorale, richiesta con uno slancio entusiasmante dai cittadini tramite le firme per il referendum,osteggiato dai grandi partiti. Né si è provveduto a semplici interventi, che non necessitano di modifiche costituzionali, quale il dimezzamento degli emolumenti o l’eliminazione di privilegi inaccettabili. La risposta è stata il dimezzamento degli eletti; ridurre drasticamente la rappresentanza, invece che la spesa, come ha prontamente deciso il Consiglio regionale. Il che significa mantenere saldamente le nomine in mano ai grandi centri di decisione, di cui i partiti rischiano di essere semplici strumenti. A questo dimezzamento di rappresentanza si aggiungono alcuni altri segnali preoccupanti come, ad esempio, il diktat della BCE che tenta di delegittimare il referendum sull’acqua e gli altri beni comuni. Questo non è un mero problema di crisi economica e di necessità di scelte drastiche, sulle quali possiamo discutere ma che, di per sé, sono legittime anche se non le condividiamo; è invece un problema di legittimità di una democrazia che decide secondo norme costituzionali, che non possono essere né messe in discussione né sospese da poteri altri; i poteri, di qualunque genere, hanno sempre paura delle decisioni democratiche, vedi la Grecia. O come l’altra norma, questa nostrana, che rende un reato manifestare contro la Tav; anche qui possiamo prescindere dalla specificità della protesta, perché siamo nel caso della sospensione di principi costituzionali.
Quindi restituire legittimità ai nostri organi di governo, alle nostre assemblee, con semplici accorgimenti, che non cambiano il nostro dettato costituzionale: elezione e non nomina; collegi elettorali che garantiscano la rappresentanza del territorio. E, poi il principio di un solo incarico di rappresentanza a persona, non si può essere allo stesso tempo membri di più assemblee (comunali, provinciali, parlamentari e enti partecipati), o membri del governo degli enti e contemporaneamente componente della stessa assemblea (non più ministri e parlamentari, assessori e consiglieri); infine vincolo del numero di mandati, non più di due, poi si fa altro. Semplici accorgimenti che portano all’aumento della rappresentanza e rendere attivo il flusso bidirezionale fra eletti ed elettori.
È il principio di “una conca, una berrita”, che è poi il vero senso del nostro proverbio.

PS. Permettetemi un commento sul governo tecnico. Niente in contrario ai tecnici o ai nomi proposti (Settis ai Beni Culturali sarebbe un’ottima notizia, dopo Bondi …); ma una cosa mi preoccupa, il Ministero della Difesa affidato a un militare. Temo si stia travalicando, non per la persona in sé, ma se c’è un settore nel quale la distinzione dei ruoli dovrebbe essere rigida è proprio questo: i militari dovrebbero stare nelle caserme, non al governo.

1 Commento a “Una conca una berritta”

  1. Giuseppe Orro scrive:

    Ciao Alfonso, ben detto! sono proprio d’accordo con te.

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