Civiltà, progresso e repressione

1 Aprile 2016
Alfano a Cagliari con Pigliaru e Scano
Andria Pili

L’incendio all’auto del sindaco di Orotelli, alle 3 del 2 aprile scorso, è solo l’ultimo di una lunga serie di attentati ai pubblici amministratori sardi. L’ascesa della violenza è stata accompagnata da un’altra crescita: quella degli appelli ad una maggiore presenza dello Stato- già promessa ritualmente dal ministro dell’interno Alfano- ed alla necessità di un cambiamento.

Ad esempio, il rappresentante sardo dell’ANCI, Pier Sandro Scano, ha recentemente chiesto di «rafforzare l’intelligence» ed il «presidio territoriale»; gli ha fatto eco il presidente del Consiglio Regionale, Gianfranco Ganau, secondo cui servirebbero «interventi mirati a promuovere una cultura della legalità» perché i cittadini sardi denuncino gli attentatori. Tuttavia, lo stesso Scano, in occasione dell’ultima assemblea dei sindaci ad Abbasanta, sintetizzando le domande di questi affermò che una maggiore presenza dello Stato dovrebbe andare di pari passo con lavoro e sviluppo, intendendo con ciò: “nuove politiche per le zone più svantaggiate”.

Il culmine di questo climax rivendicativo è stato toccato dal Presidente della Regione, il quale- a seguito del fatto di Orotelli- ha così dichiarato: “siamo pronti a portare avanti un’iniziativa forte sulla legalità e la sicurezza e nello stesso tempo già concentriamo tutte le energie per trovare nuove risorse che ci permettano di accelerare la realizzazione della rete di videosorveglianza e la sua rapida diffusione”; pur essendo cosciente che ciò non basterà ad eliminare un “male così radicato”, può comunque servire “per prevenire e dissuadere” senza scordarsi del valore simbolico: “usare la banda larga contro le bande che affossano le zone interne, diventa il messaggio di cultura, civiltà e modernità che la nostra terra è tempo faccia suo”.

La conseguenza logica di questo ultimo periodo è tanto chiara quanto vergognosa: la Sardegna è una terra incolta, incivile e arretrata. Questo è il pensiero di Francesco Pigliaru, che ha svelato  cosa si nasconde dietro la richiesta di una maggiore presenza statale, mettendo assieme – in una dichiarazione sola- legalità, progresso, repressione e colonialismo (evidente il pregiudizio inconsapevolmente razzista nelle sue parole).

Si tratta di quattro elementi che, nella nostra isola, si sono presentati spesso assieme nelle fattezze dello Stato e di certo non come soluzione ai suoi problemi. L’agenda digitale della Sardegna, che lega i lavori per la fibra ottica in 313 comuni sardi a quelli per la rete di videosorveglianza in 80 comuni e 6 unioni di comuni, è il perfetto simbolo di un processo di modernizzazione che- a partire dalla seconda metà del XIX secolo- ha coinvolto i sardi non come protagonisti ma come dominati, cui bisogna portare la civiltà ma anche controllare, per il loro stesso bene.

Tuttavia, la società sarda non è arretrata ma integrata in condizione di subalternità. L’integrazione della Sardegna entro lo sviluppo capitalistico è passata attraverso molte fasi astrattamente progressive – ad esempio: l’abolizione delle terre comuni al fine di permettere una maggiore produzione agricola e la creazione di un proletariato industriale; ferrovie; mulini e caseifici; i piani di Rinascita con la creazione dei poli di sviluppo dell’industria pesante, la crescita dei consumi, la diminuzione degli addetti nel settore primario e l’ascesa di quelli nel settore terziario- ma portatrici di sottosviluppo in quanto presentatesi con lo sfruttamento colonialista, la dipendenza politica ed economica e affermate grazie anche alla violenza dello Stato contro il nostro popolo, oggi conquistato dall’egemonia culturale italiana ma un tempo a lungo riottoso ad accettare una modernizzazione imposta e ostile ai propri interessi (basti pensare ai moti del 1906).

La mia impressione è che il dibattito dominante sul tasso record di attentati in Sardegna sia incentrato nel dare delle risposte ad una domanda sbagliata, che richiede l’attenzione di un potere esterno e l’uscita da una condizione di presunta arretratezza. Una richiesta dettata da una visione contraddittoria e non esauriente. Due analisi sono esemplari per notare la complessità della questione.

La relazione della commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno, nel 2015, riporta le audizioni di vari rappresentanti della Repubblica- prefetti, questori, magistrati- secondo cui le violenze contro i pubblici amministratori nascerebbero entro un contesto culturalmente arretrato che rifiuta le istituzioni democratiche (procuratore Marassi sull’Ogliastra), non ha fiducia nell’autorità statale (procuratore Angioni) e accetta la vendetta privata come risposta ad un’offesa che può venire, in questo caso, da un’aspettativa disattesa da parte dell’amministratore pubblico, come nel caso di mancate concessioni edilizie (questori D’Angelo, Errico; prefetto Giuffrida). Leggiamo dalla stessa relazione che «il rapporto cittadini-amministratori locali è stato descritto come complesso e con tratti di crescente sfiducia nei confronti dei canali istituzionali tradizionali, o nell’attività politica e/o amministrativa”.

Lo studio compiuto nel 2006 da Maria Grazia Giannichedda e Carlo Usai e curato dalla sociologa Antonietta Mazzette dell’Università di Sassari ha evidenziato, invece, come esista un legame tra una serie di attentati e lo sviluppo economico. Infatti, analizzando questa forma di criminalità tra il 1983 ed il 2003, si afferma come questi si siano verificati anche in contesti relativamente ricchi- ad esempio, comuni galluresi legati al commercio del sughero o del granito- o in espansione- ad esempio, comuni barbaricini caratterizzati dalla produzione agroalimentare- e come esista una tipologia di attentati ai privati, superiori a quelli contro gli amministratori locali, legata alla concorrenza tra piccoli imprenditori.

Sebbene la provincia di Nuoro sia indicata come la più toccata dal fenomeno, la città con maggiore frequenza di attentati è invece Olbia. Inoltre, la quasi totalità degli attentatori rimane ignota; ciò potrebbe essere dovuto al fatto che essi sarebbero dei cittadini generalmente rispettosi della legge. Ammettendo che ci sia una sfiducia verso l’autorità, cosa risolverebbe una maggiore presenza statale, specie in forma di ulteriori forze dell’ordine? Ponendo l’esistenza un male socioeconomico, chi potrebbe migliorare la nostra condizione?

Le domande giuste sul problema riguarderebbero non la presenza dello Stato italiano, ma la sua legittimità; invece di considerare presunte tare interne sanabili solo grazie all’intervento esterno, si baserebbero sulla constatazione di un rapporto di dipendenza verso un potere politico-economico che ha creato le migliori condizioni per i profitti del capitale straniero a danno del nostro sviluppo, la cui possibilità è vista dai sardi oppressi tanto irraggiungibile da far sembrare conveniente- a qualcuno di loro- una violenta competizione individualista al fine di ottenere qualche briciola in più.

Foto: Fonte Ansa

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