Socialismo e imprese cooperative

3 Gennaio 2017
Gianfranco Sabattini

In un articolo apparso sul n. 116/2015 di “Studi Economici”, Gaetano Cuomo (“Imprese cooperative e democrazia economica”), recensendo un saggio di Bruno Jossa (“Un socialismo possibile. Una nuova visione del marxismo”), afferma che la tesi di quest’ultimo “sul socialismo possibile può apparire a prima vista come un contributo tutto interno al dibattito marxista sull’attualità dl socialismo e sulle forme che esso dovrebbe assumere alla luce di quanto è accaduto a partire dalla caduta del muro di Berlino”. Ciò, però, a parere di Cuomo, sarebbe solo un aspetto del contenuto del saggio di Jossa, in quanto ad esso sotteso vi sarebbe una “parte del dibattito teorico che, nell’ultimo secolo, ha impegnato gli economisti sulla compatibilità tra mercato e socialismo e sulla teoria economica dell’impresa autogestita o cooperativa”.

Su questo tema si sono impegnato molti economisti, tra i quali risalta il nome del premio Nobel James Meade; questo economista, nella sua “opera summa” sull’argomento (“Agathotopia: l’economia di compartecipazione”), a differenza di molti altri economisti che, impegnati nel dibattito marxista, sostengono la realizzabilità di istituzioni perfette per cittadini perfetti, propone, la realizzazione di un “buon posto in cui è conveniente vivere” (traduzione etimologica di Agathotopia), all’interno del quale risolvere “al meglio” il problema distributivo del prodotto sociale che il socialismo burocratico ed accentratore, ma anche il libero mercato del capitalismo, non sono riusciti a risolvere.

Tradizionalmente, l’economia dell’autogestione, dopo il tramonto dell’organizzazione della produzione secondo il “modello del socialismo burocratico-accentratore” e il succedersi delle crisi nelle economie di mercato, rappresenta il tentativo di dare un fondamento teorico all’idea della cooperazione nel mondo della produzione tra il capitale e la forza lavoro, attraverso il loro coinvolgimento nella gestione delle attività produttive. Il punto di arrivo di questa corrente di analisi teorica (iniziata nel XIX secolo, parallelamente al rilancio del movimento cooperativo) è appunto il contributo di J.E.Meade; questi, come si è detto, a differenza degli utopisti, propone un’organizzazione cooperativa della produzione per risolvere “al meglio” il problema distributivo.

Con il suo ultimo saggio, anche Jossa, da oltre trent’anni impegnato sull’argomento dell’autogestione e della cooperazione, propone un sistema economico costituito esclusivamente, o prevalentemente, da cooperative, definendolo unica forma di socialismo oggi possibile. Le proposte di Meade e di Jossa – afferma Cuomo – hanno “in comune l’utilizzo dello stesso strumento, l’impresa cooperativa, figlia del socialismo, per suggerire, il primo, un imponente progetto di riforma che introduce nuove istituzioni economiche private e modifica il ruolo dello Stato, pur restando nell’ambito di una visione socialdemocratica del capitalismo, e, il secondo, una conversione in senso marxista della società […] , ma con innovazioni tali da non lasciare intravedere alcun contatto con le economie del vecchio socialismo reale”.

Meade e Jossa – sostiene Cuomo – pongono la dignità dell’uomo al centro dell’attenzione: il primo “vuole liberarlo dalla schiavitù della lotta per la sopravvivenza”, mentre il secondo vuole affrancarlo “dalla schiavitù nei confronti del capitale e renderlo soggetto alla propria azione”. I meccanismi di transizione alla società socialista sono – conclude Cuomo – sufficientemente definiti in Meade, anche se appaiono lunghi e complessi, mentre restano problematici nella proposta di socialismo di Jossa”, sebbene la transizione allo “stato finale” in quest’ultimo caso sia associato da Cuomo al verificarsi di eventi futuri, “come l’andamento della conoscenza e della tecnologia”, del tutto imprevedibili e indipendenti dalla volontà diretta dell’uomo.

Se così fosse, la tesi di Jossa sarebbe da ricondursi nel novero di quelle sostenute dagli economisti utopisti, per cui la sua proposta si allontanerebbe dal quella avanzata da Meade e fondata sulla realizzazione di un “luogo in cui è conveniente vivere”. Il fatto però che i meccanismi di transizione siano stati considerati da Jossa di natura problematica consente di ipotizzare che anche la sua proposta, come quella di Meade, assuma la transizione alla società socialista in termini asintotici, attraverso un processo per approssimazioni migliorative della società originaria alla società socialista.

La necessità di configurare la società socialista, non in termini di risultato finale, ma solo in termini di processo, consente tra l’altro di evitare le contraddizioni cui si va incontro, se si trascura il fatto che all’interno di un ordinamento economico fondato sulla proprietà cooperativa delle attività produttive permangono irrisolti, secondo J.E.Meade, tre ordini di problemi che la teoria tradizionale dell’autogestione non è riuscita a rimuovere.

Il primo riguarda l’assunzione del rischio, in quanto anche la forza lavoro, al pari del capitale, deve assumere una parte del rischio d’impresa. Al riguardo, però, non esiste la certezza che la maggioranza dei lavoratori sia disposta a preferire l’autogestione in luogo della sicurezza rappresentata dal salario fisso.

Si potrebbe pensare di garantire, a livello di intero ordinamento economico, una diminuzione del rischio di disoccupazione in cambio della disponibilità da parte dei lavoratori ad accettare un più elevato livello del rischio di instabilità del salario; non è detto però che un trade-off di questa natura possa essere condiviso dalla maggioranza dei lavoratori, soprattutto se, all’interno delle attività produttive, esiste una minoranza della forza lavoro, più esposta al licenziamento in caso di crisi, che non sia disposta ad accollarsi l’onere delle diminuzione del rischio di disoccupazione a favore della maggioranza. Il secondo problema concerne le possibili implicazioni negative della compartecipazione, quando di devono assumere delle decisioni il cui successo dipenda dalla possibilità di sperimentare forme di innovazione ad alto rischio.

Il terzo, infine, riguarda la possibilità che la forza lavoro che partecipa all’assunzione delle decisioni gestionali tenda a tutelare solo la massimizzazione del suo salario, frenando la crescita delle attività produttive, anche di quelle che hanno successo, la cui espansione è necessaria per contribuire ad elevare l’occupazione e a migliorare i livelli salariali. Pure in questo caso, tuttavia, la cogestione può essere caratterizzata dal permanere di conflitti latenti e interni alle attività produttive, tra i lavoratori che ritengono di dovere utilizzare i risultati positivi per migliorare i salari ed i lavoratori che, invece, sono propensi ad un’utilizzazione dei risultati positivi per promuovere, a parità delle altre variabili economiche (prezzi, profitti e salari), l’espansione della produzione, e con essa quella dell’occupazione dei lavoratori senza lavoro.

La mancata soluzione di questi problemi, tuttavia, se vale a dimostrare che la cogestione delle attività produttive non può garantire in termini ottimali uno stabile funzionamento del sistema economico, non vale però a dimostrarne l’improponibilità; ciò perché la presenza di problemi rimasti irrisolti è perfettamente compatibile con l’ipotesi che Meade ha assunto in Agathotopia, che la cogestione implichi l’istituzionalizzazione di un ordinamento economico complessivo “migliore” di quello che si avrebbe in sua assenza, per attori sicuramente imperfetti.

L’approccio microeconomico, inoltre, fa velo su un altro aspetto della cogestione, che a Meade non è sfuggito. Oltre ai problemi irrisolti, pur in presenza di una cogestione estesa a tutte le attività produttive dell’intero ordinamento economico, esistono anche problemi che possono essere affrontati solo dall’ordinamento politico, a livello macroeconomico. L’ordinamento politico costituisce, infatti, un contesto alternativo all’ordinamento economico, per la soluzione di tutti i problemi che quest’ultimo non può risolvere a causa dei cosiddetti fallimenti del mercato; tali sono la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi pubblici, la ridistribuzione del prodotto sociale complessivo e la stabilizzazione dell’attività produttiva. Queste tre grandi classi di problemi richiedono infatti, pur in presenza della cogestione, un ruolo attivo ed insostituibile dell’organizzazione complessiva dell’ordinamento politico; richiedono cioè un ruolo attivo e complementare dello Stato.

La cogestione, così come è stata studiata a livello microeconomico, presenta anche un altro limite, riconducibile all’assunzione dell’ipotesi del pieno impiego della forza lavoro, o quanto meno che il fenomeno della disoccupazione, quando insorge, sia sempre temporaneo e congiunturale. La realtà concernente il funzionamento del sistema economico dal punto di vista dell’occupazione è ben diversa, nel senso che il fenomeno della disoccupazione può ricorrere, non solo in termini congiunturali, ma anche in termini strutturali e permanenti. Ciò comporta che, a livello dell’ordinamento politico, il problema distributivo debba essere risolto in modo da tener conto anche del fenomeno della disoccupazione strutturale e della necessità di garantire all’intera economia un sistema di sicurezza sociale (welfare State) che assicuri un reddito pure a chi non riesce a partecipare quale socio ad un’attività produttiva cogestita.

Anche riguardo a questo problema il contributo di Meade è risultato sinora il più avanzato (“Poverty in the welfare state”; “Libertà, uguaglianza ed efficienza”); ciò perché egli ha descritto e spiegato le modalità organizzative dell’ordinamento politico e dell’ordinamento economico fondate sull’estensione a tutti i cittadini-lavoratori, indipendentemente dalla stabilità o meno del rapporto di lavoro, di un “reddito di cittadinanza” (che Meade chiama social dividend) o un “fondo sociale di cittadinanza” (R.M.Unger, Democrazia ad alta energia.

Un manifesto per la sinistra del XXI secolo), sufficienti a garantire a tutti indistintamente i disoccupati permanenti, ed a coloro che sono dotati di un basso reddito, la possibilità di realizzare il proprio progetto di vita attraverso la fruizione di un reddito (o di una sua integrazione) dissociato dal rapporto di lavoro. Che altro è questa garanzia di un reddito per tutti se non la realizzazione, in senso socialdemocratico, di un ordinamento politico migliore, rispetto a quelli sinora sperimentati, realizzato attraverso la sua cogestione da parte di tutti i cittadini che, sulla base della regola democratica, concorrono a risolvere a livello macroeconomico il problema distributivo del prodotto sociale nell’interesse di tutti?

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