Lo scavo della talpa

1 Novembre 2011

Marcello Madau

La pratica relativa al mestiere di archeologo conosce la delicatezza dell’operazione di scavo, atta a disvelare progressivamente, senza accelerazioni, gli strati che tendono a definire la storia di un oggetto o anche di un insieme concettuale. Se c’è un tema che oggi appare appassionante da definire, e da indagare, è quello dei beni comuni. Queste righe sono introduttive a un ragionamento più ampio ad approfondito, che sto sviluppando e che proporrò in altre occasioni. Prendetele perciò – uso ancora la metafora archeologica – come una relazione preliminare che informa sui primi risultati e prova a fornire qualche orientamento.

Un primo scavo va fatto sui termini. E subito notiamo un possibile fattore di tensione fra ‘bene’ e ‘comune’.  Comune lo intenderei, in questo contesto come ‘disponibile a tutta la comunità, senza uso esclusivo privilegiato di una parte di essa a scapito del godimento delle altre parti’.
Per la dottrina giuridica, almeno intesa in senso tradizionale, il bene è tutto ciò che rappresenta possibile oggetto di proprietà e diritto (Codice civile – art. 810: beni sono “le cose che possono formare oggetto di diritti”).
Nella Roma antica la sua dimensione – legandosi alle ricchezze familiari (bona il termine latino, associato ad esempio con materna) – si incrocia con l’ereditarietà (eppure sembra preludere in qualche modo al concetto ‘collettivo’ di patrimonio, che non a caso emerge dagli strati più recenti). In ogni caso, oggi pare – secondo molti giuristi – legarsi alla dimensione privata della proprietà stessa. Ciò che non è possibile oggetto di diritto di appropriazione, in sostanza, non andrebbe definito come bene.
Ma il fatto che la proprietà possa definirsi non solo individualmente rende naturalmente possibile un’altra lettura.

Tale variabilità coinvolge un altro dei cardini del concetto di bene, quello della dottrina economica classica, per la quale esso è un’entità legata alla ricchezza ed alla sua creazione di utilità.
Anche in questo caso, si dovrà vedere se il termine ricchezza lo si possa intendere esclusivamente nella sfera privata, come pure quello dell’utilità.
La verità è che la storia ha mostrato che l’arcaico concetto dei ‘beni’ è stato attraversato da forti modifiche.
E se ancora prevale, nel diritto vigente, la visione liberale e il suo forte legame alla proprietà privata degli stessi, dalla traccia aperta con l’affermarsi del concetto di bene pubblico (nella cultura e nel paesaggio, in piena strutturazione formale e concettuale fra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento) emerge una complessità giuridica importante fra le varie tipologie di bene. E soprattutto – pur con altre e più complesse provenienze – la crescita del concetto di bene comune. Una crescita esplosa fra gli ultimi decenni del Novecento e i primi del nostro terzo millennio, che sta portando ad una nuova dimensione politica, giuridica ed economica.
Noi ci confrontiamo con il diritto vigente, ma stiamo costruendo – e non certo da zero, come avremo modo di vedere – il diritto futuro.
E’ bene riconoscere il dinamismo della storia fra gli strati che compongono l’affascinante ma non sempre univoca formazione del concetto di bene comune. Perché proprio il dinamismo impresso dai soggetti storici che rivendicano con sempre più forza i propri diritti (ceti, classi, comunità) sta facendo apparire nuove categorie di beni comuni (i cosiddetti new commons, come cultura, spazi web, servizi pubblici classici come scuola, salute, trasporti e casa) che si affiancano sia a quelle globali legate ai bisogni primari: aria, acqua, terra, foreste, spazio, oceani, biodiversità etc. sia a quelle’tradizionali’ (dove appaiono almeno tracce medievali) in genere legate ad usanze ed abitudini, talora formalizzate in usi civici dalle comunità, come pascoli, boschi, zone di pesca, fontane e sorgenti etc..
E’ noto come la crisi del Pianeta terra dipenda dall’attacco violento ai global commons, e come su tali livelli – ciò che spiega l’attacco e ne fa cogliere il senso – si esprimano imponenti fenomeni di profitto privato e relativo comando politico (si pensi all’industria per il controllo dell’acqua e la sua produzione privata, o a quella aerospaziale). Ma la crescita delle categorie dei new commons appare speculare a quella della coscienza democratica e del governo dal basso delle comunità, ad una pratica della democrazia profondamente connaturata (e da considerare ormai bene comune, come io penso, differentemente dalla pratica della violenza).
Qua si osserva un aspetto interessante: le battaglie sul livello dei new commons, che appartengono in parte prevalente e trainante al ‘lavoro cognitivo’ ed alla sua ‘produzione sociale’, sono poi in grado di agire sui global commons. E riconoscere, in una nuova luce, quelli ‘tradizionali’.
Ma non sembra accettabile ritagliare una ‘terza dimensione’, in autonomia, per i beni comuni, come proposto da Hardt e Negri nello stimolante “Comune: oltre il privato e il pubblico”, né l’equivalenza fra ‘produzione naturale’ e ‘produzione sociale’ (o ‘biopolitica’, non così autonoma ed emancipata dal capitale e dallo Stato), che in realtà agiscono su classi di commons piuttosto diverse.
Penso piuttosto che la dimensione di ‘comune’ riempia finalmente di significato quella formalmente pubblica, e ne debba pretendere, a sua garanzia, il riconoscimento come tale: se vogliamo, come già succede nel ‘Codice dei beni culturali e del paesaggio’ per i terreni gravati da usi civici ( D.Leg. 142/2004, art. 142: la prima formulazione nella Legge 431/1985, o Legge Galasso).

In questo primo scavo, concludendo con ciò la relazione preliminare in necessaria sintesi ma ripromettendomi futuri approfondimenti, mi appaiono evidenti tre cose:
– La natura privata del termine bene non è uno stato o un’idea innata, ma soggetta a modifiche importanti;
– L’origine plurisecolare – almeno medievale – di alcuni beni comuni tradizionali;
– la progressiva crescita dei concetti di cultura e ambiente/paesaggio verso una dimensione pubblica fra Ottocento e Novecento;
– l’affermarsi successivo del concetto di bene comune, che si riferisce alla comunità e all’uso non esclusivo del bene da parte di componenti singole o parziali della comunità stessa, coseguenza di grandi lotte territoriali e planetarie.
Attraversando, mentre componiamo il numero 109, i contributi in via di impaginazione, mi accorgo di come molti di essi entrino in questo ambito: dal ‘manifesto per la cucina neo-tradizionale’ elaborato dal nostro chef militante, al diritto alla cultura che ruota attorno alla crisi degli spazi collettivi, da ultimo la libreria Odradek, a quello dell’editoria indipendente, ‘bene comune’, al diritto lavoro, casa e cibo, spine dorsali del diritto all’esistenza che è forse il principale dei beni comuni….

Questi e altri temi sarebbero un ottimo programma per la sinistra…
In ogni caso, a giudicare da quanto esprime, irrimediabilmente lontano dall’attuale centro-sinistra, e naturalmente dal centro e dalla destra. Insomma, dalle rappresentanze politiche del capitalismo.
Sarà che l’uso e la pratica dei beni comuni evocano il preoccupante  fantasma del comunismo, giustificandone la vicinanza lessicale e raccontandolo in una forma straordinariamente attuale.
Spero che perdoniate l’archeologo militante, ma penso che in casi come questo lo scavo della vecchia talpa – facendo emergere i beni comuni al popolo, che si è battuto vincendo inopinatamente i referendum su acqua e nucleare e ora, nel mondo, con la  marea degli indignati – sia davvero molto interessante ed istruttivo.

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