Entrando nel merito

16 Giugno 2012

Lilli Pruna

Ragioniamo su due casi che sembrano molto simili: quello del figlio di una coppia di avvocati che consegue il diploma di liceo classico e si laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti; quello del figlio di un manovale e di un’operaia, entrambi con la licenza media, che a sua volta consegue il diploma di liceo classico e si laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti. Il punto di arrivo è apparentemente uguale, ma la differenza tra i due casi è notevole e sta tutta nel punto di partenza, la cui distanza dal punto di arrivo individua il valore del percorso, dà la misura della determinazione, dell’impegno a superare ostacoli e svantaggi, della fatica e tenacia che stanno dietro il conseguimento di un risultato per niente scontato, addirittura socialmente inatteso in un Paese come il nostro.
E’ difficile il confronto con la relativa facilità con cui, in altri casi, si può raggiungere una meta che fin dall’inizio appare più prossima e attesa. Si può convenire che non c’è lo stesso merito nei due percorsi: gli esiti formali apparentemente uguali non implicano affatto il possesso delle medesime capacità. Eppure, di norma, i due casi sono considerati pari, così come il merito che esprimono (benché nel valore complessivo attribuito a ciascun individuo pesino di fatto anche “titoli non trasferibili” come le relazioni familiari, che ristabiliscono le distanze).
La misura del merito non può essere ricavata solo dal possesso di titoli, ma anche dalle capacità che occorre sviluppare per conseguirli, soprattutto in ragione di una condizione di partenza molto sfavorevole. La valutazione del merito dovrebbe tenere conto delle disuguaglianze di partenza, che tendono a lasciare indietro chi parte da una condizione di svantaggio sociale e solo in casi limitati consentono di raggiungere una effettiva parità.
Questa misura del merito costringe a fare i conti con le gravi e inaccettabili disuguaglianze sociali di questo Paese e fa apparire ridicola l’idea di premiare gli studenti migliori, perché i “migliori” sono in larga parte già premiati dalla vita. Il ministro Profumo non tiene conto di questa dimensione, dimentica che in questo Paese gli individui partono da condizioni sociali diseguali a cui sono associate opportunità e risorse diseguali, che non conducono alla stessa collocazione sociale. Le disuguaglianze infatti si riproducono, perché il nostro sistema non le contrasta a sufficienza.
E’ proprio la lotta contro le disuguaglianze che dovrebbe essere premiata all’interno della scuola: ogni volta che a scuola si entra diseguali e si esce più eguali il sistema scolastico merita un premio; e ogni volta che questo non accade la scuola fallisce. Purtroppo la scuola fallisce spesso, perché lo Stato non crede che l’istruzione debba essere eccellente per tutti ma ritiene soddisfacente avere qualche studente eccellente da premiare. Poco importa se non si tratta dei più capaci in assoluto ma solo dei più capaci tra coloro che hanno avuto modo di dimostrarlo, avendo avuto in sorte di nascere in una famiglia agiata, in un bel quartiere con una buona scuola (e con la solita sezione riservata ai migliori), invece che nascere in una famiglia povera, in un quartiere difficile con una scuola di frontiera. In questi giorni, alla fine dell’anno scolastico, molti di noi si trovano a rilevare con amarezza i nuovi fallimenti della scuola: gli esiti affissi alle pareti – in nero i promossi e in rosso i bocciati – indicano in molti casi che i perdenti e i vincenti erano individuabili fin dall’inizio.
Dare valore al merito, cioè premiare i migliori e affidare a loro i ruoli di responsabilità, è senza dubbio un obiettivo ambizioso in un Paese e in una regione in cui si preferisce prescindere dal merito, se non addirittura disprezzarlo platealmente come è avvenuto di recente con la nomina di un pluriragioniere ad amministratore unico di una società pubblica che opera nel settore dell’estrazione e utilizzazione del carbone.
Gli esempi di disprezzo del merito sono innumerevoli e gravidi di conseguenze, ma raramente vengono sanzionati. Il nostro Paese tollera infatti elevati gradi di irrisione del merito, con l’attenuante che i millantatori aumentano e confondono la percezione dell’opinione pubblica. In effetti, negli ultimi mesi e giorni si sono succedute senza sosta le notizie di titoli accademici fasulli o comprati in improbabili sedi universitarie da giovani politici rampanti e incompetenti. Ciò suggerisce che i nostri problemi sono almeno due: creare persone competenti e metterle al posto giusto. Se conveniamo che buone competenze si costruiscono solo su buoni livelli di istruzione, abbiamo già di fronte un problema enorme, nato dall’insostenibile disinvestimento dello Stato che ha portato ad un grave indebolimento del sistema di istruzione pubblico, in un Paese in cui il titolo di studio più diffuso tra la popolazione in età lavorativa è ancora la licenza media.
A ciò si aggiungono le grandi disuguaglianze di questo Paese, che non consentono a tutti di avere le stesse opportunità e condizioni per acquisire “competenze ed esperienze”, cioè il famoso merito, su cui dovrebbe fondarsi la famosa “meritocrazia”. Il secondo problema che abbiamo è proprio quello di introdurre un sistema governato dal merito – la “meritocrazia” – in cui siano le competenze e le esperienze effettive a determinare l’assunzione di ruoli di potere e di responsabilità, invece che le parentele e le clientele. Ma resta da decidere quale misura del merito vogliamo adottare e a quale modello di società vogliamo guardare.

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