Terra di tutti, terra di nessuno

1 Ottobre 2012
Mario Cubeddu
La storia dei beni comuni e della loro gestione è anche specchio dei rapporti tra le classi sociali, della vicenda dei gruppi dirigenti e del loro rapporto con la società su cui riescono ad esercitare un’egemonia più o meno solida e completa. Proviamo a verificare la validità di quest’affermazione sul corpo vivo e dolorante della vicenda storica sarda. Che come si sa ha avuto ceti dirigenti particolarmente fragili, presi nella morsa stringente composta, da un lato dai gruppi di potere nazionali che imponevano all’isola le loro esigenze con un atteggiamento coloniale: sfruttamento delle risorse minerarie, imposizione di servitù militari a enormi estensioni di territorio, uso degli spazi apparentemente spopolati dell’isola come paradiso turistico o come discarica di industrie inquinanti; dall’altro lato premeva dal basso nelle campagne la rivolta di gruppi sociali non domati, capaci di contestare le forme moderne della proprietà e l’articolazione sociale in ceti a reddito differente con l’assalto ai beni e soprattutto alle persone che tali beni avevano col tempo accumulato con l’arma terribile del sequestro di persona.
Queste dinamiche sociali, e il modo di produrre presente in buona parte delle campagne, hanno accompagnato il fenomeno tipicamente, ma non esclusivamente, sardo della “proprietà” da parte di tanti Comuni di grandi estensioni di territorio. Terre comunali, terre di uso civico, terre di nessuno, ognuna di queste definizioni contiene una parte di verità. I patrimoni terrieri dei Comuni sardi nascono da terre che le comunità hanno sempre avuto a disposizione e a cui si sono aggiunti territori di pertinenza feudale assegnati alle comunità a metà del XIX° secolo. Queste terre, i boschi, i pascoli, i prodotti spontanei, le fonti, sono considerati risorse inalienabili delle comunità locali che godranno in perpetuo del loro uso. Essendo le comunità rappresentate dal Sindaco e dai Consigli Comunali, le terre civiche sono diventate proprietà dei Comuni. E’ chiaro che una proprietà collettiva di cui sono titolari tutti i componenti di una comunità è cosa ben diversa dalla proprietà gestita da Sindaco e Consiglio comunale ad interim. Ne è una spia il linguaggio burocratico che definisce il diritto d’uso civico come un “gravame”.
I diritti d’uso presenti in tantissimi comuni sardi, di pianura come di montagna, nelle colline come nei terreni vicini al mare, non sono considerati fonte di benessere per i cittadini, ma come un peso, un intralcio, un residuo del passato di cui liberarsi. All’origine di questo fenomeno sta l’incapacità e il rifiuto dei gruppi dirigenti sardi a ogni livello di assumersi le loro responsabilità governando le proprie risorse. I beni comuni sono così abbandonati all’avidità dei singoli che se ne appropriano senza averne diritto e all’uso da parte di gruppi che praticano su quei terreni il pascolo, la caccia, lo sfruttamento delle risorse naturali, dall’acqua ai frutti del bosco, in modi scriteriati e anarchici. Sono i gruppi che hanno poi la forza di tener lontana ogni regola e ogni progetto di interesse collettivo, come quello dei Parchi regionali che proponevano un governo saggio e democratico del territorio.
Questa tendenza e queste pratiche negative sembrano presentare oggi un’eccezione e l’inizio di un percorso diverso a Seneghe, un paese vicino alla costa occidentale ai bordi del Campidano di Oristano. La comunità di Seneghe possiede più di 900 ettari di terre coperte quasi interamente da bosco o da macchia alta. Queste terre sono state amministrate dalle persone che nel corso di 150 anni si sono succedute alla guida del Comune. A metà Ottocento, nei tempi delle tancas serradas a muru fattas a s’afferra afferra, le terre pubbliche sono state amministrate dalle poche famiglie che dominando il paese si impadronivano di buona quantità di esse. Il lamento pubblico sugli abusi si accompagnava al privato accaparramento. Una parte consistente del patrimonio pubblico veniva privatizzato in modo più o meno legale.
La stabilizzazione della proprietà pubblica avveniva dopo la Grande Guerra e il sorgere dei partiti di massa, che davano voce, pur con molte contraddizioni, alle esigenze dei ceti popolari, i pastori e allevatori di bovini in primo luogo. Il movimento sardista locale confluiva nel fascismo tramite il fenomeno del sardo-fascismo, guidato in Sardegna da due seneghesi, Paolo Pili e Antonio Putzolu. E’ fondamentale capire che gli usi, presunti antichissimi e fatti risalire alla notte dei tempi, sono in realtà continui adattamenti di pratiche comunitarie che una società creativa realizza in relazione al mutare delle proprie esigenze.  La politica democratica rappresentata in Consiglio da una DC maggioritaria e dall’opposizione sardista e comunista, ha inventato un nuovo modo di fruire del legnatico, con l’assegnazione di una certa quantità di legna che ogni famiglia si preoccuperà di tagliare per il proprio uso di riscaldamento casalingo.  Questa pratica, iniziata circa mezzo secolo fa, ha sostituito l’antico uso della raccolta dei rami secchi o di alberi caduti e si è talmente affermata da essere considerata naturale e antichissima.
Ognuno ha la sua parte identica a quella degli altri, ciascuno si distinguerà con la bravura del taglio e la perfezione della catasta che sa preparare.  Solo che questo sistema fa acqua da tutte le parti. Il Comune non ha la possibilità di esercitare un controllo sul prelievo di legna, alcuni amministratori hanno fatto i demagoghi incitando al prelievo selvaggio, tanto ce n’e e ce ne sarà sempre in abbondanza. Buona quantità di legname, invece che servire per l’uso familiare, ha preso la strada del mercato della legna da ardere. Il cattivo esempio corrompe anche gli onesti quando manca un’autorità capace di imporre il rispetto delle norme. Ora la comunità di Seneghe tenta la strada dell’autogoverno delle proprie risorse. Partendo dal principio che la gestione di questo tipo di bene comune si deve basare su un concetto diverso di proprietà, non più solo privata o pubblica, ma collettiva, comune a un’intera comunità che di quel bene è proprietaria e responsabile.
Quindi il percorso dovrebbe portare alla convocazione di tutti i cittadini e all’elezione di un comitato di gestione delle risorse comuni. Questo organismo avrà una scadenza precisa e sarà sottoposto al controllo di tutti i cittadini. Dovrà governare e rendere conto della gestione dei beni comuni. E’ un percorso non facile, sia per le resistenze di tutti gli elementi che sguazzavano nel disordine, sia per la difficoltà a trovare gruppi dirigenti capaci di spendere tempo ed energie per il bene pubblico. E’ questo secondo punto quello più delicato, ma è anche il terreno su cui i normali cittadini possono dimostrare di essere migliori di rappresentanze politiche in profonda crisi.

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