Se quarant’anni vi sembran pochi*

1 Gennaio 2013
Gianpasquale Santomassimo
Nel libro-intervista di Valentino Parlato tutta la storia del «manifesto». Presentate senza reticenze le vicende di un giornalismo militante, che nel panorama della sinistra costituisce una esperienza unica. Dagli inizi fino al presente, che vede il quotidiano comunista a rischio di chiusura. La storia del manifesto raccontata da Valentino Parlato non è certamente l’unica possibile, ma probabilmente la più credibile (La rivoluzione non russa. Quarant’anni di storia del manifesto, a cura di Giancarlo Greco, Manni, pp. 188, euro 14). Perché viene da quello che si autodefinisce «il più modesto e moderato del gruppo» dei fondatori, ma soprattutto dal protagonista che più a lungo e con più continuità ne ha vissuto la storia, nei suoi aspetti politici, ideali, e soprattutto pratici, e di pratica non solo giornalistica.
E il manifesto c’è davvero tutto in questo libro, comprese le sue contraddizioni irrisolte, gli interrogativi senza risposta ma che era doveroso porre, i dibattiti interminabili; come pure i lapsus generosi (Bush al posto di Reagan nei bombardamenti a Gheddafi) e perfino la genialità dei refusi (Sindona come Stravinsky anziché Stavisky è delizioso). E soprattutto c’è un pezzo di storia della sinistra italiana da un’angolatura parziale ma essenziale, quarant’anni in cui tutto è cambiato nel mondo e nel modo di pensarlo.
«Moderato» Valentino si considerava perché, unico nel novero dei fondatori, accanto alla fascinazione ingraiana recava pure una dimestichezza con Giorgio Amendola e le sue tematiche, cui retrospettivamente rende più di un omaggio (quel capitalismo italiano effettivamente arretrato e «familiare»). Ma tipicamente amendoliana sembra anche la disposizione a interpretare la propria storia come intessuta di «errori provvidenziali», vale a dire di innegabili abbagli nel giudizio e nella previsione, da cui si traggono però lezioni importanti e vitali, che irrobustiscono per il tornante seguente da affrontare.
Passeggere infatuazioni
«Cadere sette volte, rialzarsi otto», è il proverbio francese che Valentino cita, augurandosi che anche l’ultima caduta non sia definitiva. Una storia fatta di grandi intuizioni di fondo, cui si accompagnano equivoci di non lieve momento, sì che lo «stare dalla parte del torto» come recita la frase brechtiana assume un significato duplice e non autoconsolatorio. Gli «abbagli» teorici sono tutti lealmente elencati, forse con più severità rispetto alla giustezza delle opzioni da cui erano scaturiti. La comprensione – nel Sessantotto, al momento giusto – della insostenibilità del modello sovietico si accompagna a una infatuazione per la rivoluzione culturale cinese, così come la fiducia nel risveglio di un mondo postcoloniale fuori dalle logiche usurate della guerra fredda si assocerà poi a un fraintendimento della rivoluzione iraniana di Khomeini. E tanti altri ancora, che Parlato non si risparmia, infatuazioni passeggere e talvolta inevitabili, fiducia acritica nel carattere «epocale» di tendenze significative ma modeste. «È fuori di dubbio che il giornale abbia fatto bene a cavalcare questi movimenti – si scrive a proposito di uno di questi episodi -. Però sarebbe bastato poco per capire che essi erano poco più che rivolte di soggetti privi di visione d’insieme».
Del resto «l’unico modo per tollerare il logorio quotidiano della battaglia politica è credere in un avvenire migliore che non si realizzerà mai», scrive con consapevolezza disincantata, nel dar vita in maniera continua e tenace a quella che risulterà sempre una «vicenda politica ed editoriale senza prospettive certe, ma vissuta giorno per giorno».
Gli errori più significativi, perché riconducono a un nodo non ancora del tutto sciolto, sono quelli che alludono al modo di interpretare la funzione di giornale-partito che Parlato considera naturale per il manifesto, e su cui torneremo alla fine. Il manifesto fu davvero organo di partito dal 29 ottobre 1974, modificando anche la celebre testatina, che divenne «quotidiano di unità proletaria per il comunismo». Quella del Pdup è rivissuta qui come «esperienza logorante e frustrante», con rigidità assurde e col distacco doloroso e temporaneo di Luigi Pintor, più di ogni altro fedele alla funzione essenzialmente autonoma e giornalistica del manifesto. Anche a esperienza conclusa, continuerà a rimanere sotto traccia quella che Pintor definiva la «tentazione del giornale di partito senza partito, come lo stalinismo senza Stalin». Nel tempo si realizzerà la trasformazione piena da giornale-volantino in giornale di approfondimento e di discussione che caratterizzerà la storia futura del giornale.
Ma qui interverrà l’evento che cambierà tutto. Dopo l’Ottantanove e dopo la fine del Pci, il giornale si troverà improvvisamente a rivestire un ruolo molto più ampio di quello che sembrava essersi ritagliato, troverà nuovi lettori e nuovi collaboratori, sembrerà acquisire un senso e un posizionamento che ne faranno a lungo un interlocutore autorevole e rappresentativo di un mondo improvvisamente senza strumenti di connessione. Per molto tempo l’unico antidoto a quello che sembrò davvero un «pensiero unico» pervadente ogni aspetto della mentalità occidentale e, con particolare virulenza, del modo di pensare (e ricordare) degli italiani.
Ci sarà il paradosso per cui l’unico gruppo che in Italia assumerà su di sé la difesa e la valorizzazione dell’esperienza del comunismo italiano sarà proprio quello che ne era stato posto fuori per motivi disciplinari. Mentre i liquidatori di quel partito «mantennero proprio le caratteristiche fondamentali del Pci, producendo all’infinito una classe dirigente di burocrati avulsi dal Paese che avrebbero alimentato un linguaggio sempre più autoreferenziale, aprendo così la strada al populismo berlusconiano, cui avrebbero ceduto la maggior parte dell’elettorato popolare e operaio».
Anche in quella occasione si aprì, pur nella crescita, un dissidio, già percepibile al tempo ma che oggi viene rivelato con più chiarezza, tra fondatori e gran parte della generazione più giovane coinvolta nell’avventura editoriale. Una sostanziale messa in minoranza del nucleo più antico e prestigioso, di cui furono spia le uscite di Rossana Rossanda e Luigi Pintor dal comitato editoriale. Semplificando, potremmo dire che secondo Parlato si produsse allora una contrapposizione tra Comunismo e Antagonismo (termine quasi dimenticato ma che segnerà una lunga stagione di parte della sinistra). «Il manifesto si dice del tutto “comunista” ma preferisce non definire la parola – scriveva Rossanda nel giugno 1990 -. Fra “anticapitalista” e “antagonista” preferisce la seconda dizione». E con più durezza Pintor: «Il manifesto non cesserà di essere “comunista” (qualsiasi cosa voglia dire) per restare “antagonista” (che non vuol dire niente), ma per diventare politicamente nullo, omologato e integrato nella disintegrazione della sinistra». E Parlato commenta: «Luigi aveva il dono della premonizione».
L’utopia fallita del liberismo
Indipendentemente da comunismo non più definito e definibile e dall’antagonismo disperato e inconsistente, non c’è dubbio che col passare del tempo la decrescita infelice del manifesto si accompagnerà a quella della sinistra italiana. Parlato sembra molto consapevole e anche impietoso nel definire la base sociale – potremmo dire – su cui poggia il giornale: «Il lettore del manifesto non è l’operaio ma un medio-piccolo borghese colto, arricchitosi negli anni del miracolo (economico) che vota comunista ossessionato dalla fragilità del proprio successo sociale e sperando in uno Stato garante di stabilità e di uguaglianza».
Tra le cose più belle del libro è un’analisi feroce del liberismo, che Parlato cataloga come utopia fallita, rovesciando l’accusa ricorrente che da quel mondo è venuta, un’ideologia pericolosa e distruttiva per l’economia e per la società. Rispetto alla profondità della crisi, più grave ed estesa di quella del 1929, Parlato torna immancabilmente agli esempi antichi di uno strumentario duttile che l’Europa sembra oggi essersi preclusa: l’intervento dello Stato, l’Iri, ecc., e il modello del Piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio per quanto riguarda la necessità di proposta della sinistra. Ma, al di là di vecchie e gloriose rivisitazioni, mi sembra vi sia, in forma ancora abbozzata, la consapevolezza di come da questa crisi sia possibile uscire solo modificando i vincoli che strozzano non solo l’economia ma lo stesso capitalismo («anche il capitalismo ha una storia e una sua parabola», non è sempre uguale a se stesso), infeudato a una finanza sganciata dalla produzione reale, e che questo sia un compito che richiede l’esercizio di una forza della politica in quanto tale, che torni a porsi anche il problema del potere reale e dei meccanismi concreti del suo funzionamento.
L’ultima parte del libro («Senza confini» ovvero quanto è difficile «il futuro del manifesto e della sinistra») è anche la più attuale e dolorosa. «Il manifesto e il collettivo che ne è stato la linfa giungono ad una resa dei conti che ne mette in gioco l’esistenza. Hanno percorso un strada inventata di sana pianta… hanno parlato per decenni alla politica italiana. Hanno dialogato costantemente con gli intellettuali e i lavoratori, gli studenti e gli artisti, i sindacati e i partiti. Sono stati – piccoli e poveri – protagonisti di campagne appassionate e di grandi mobilitazioni. Hanno costruito un senso originale dell’informazione e della politica e sono stati scuola di politica, di giornalismo e di umanità per molti uomini e donne, oggi autorevoli e famosi».
Si torna a quel nodo cui accennavamo prima. Il manifesto, per Parlato, deve essere un giornale-partito, pur senza legarsi a una definita formazione politica, così come sono, di fatto e indiscutibilmente, giornali-partito Repubblica, il Corriere e tutti i quotidiani che vogliono influire attivamente nella politica. Di più: il manifesto deve essere, esso stesso, «soggetto politico» («Non sono venuto al manifesto per fare il giornalista!»), senza per questo partecipare ad elezioni («un giornale è un giornale è un giornale», come vuole la parafrasi di Gertrude Stein formulata da Luigi Pintor).
Il limite del pluralismo
Un equilibrio molto difficile, sempre irrisolto. Su questo terreno il giornale si è speso in diverse fasi della sua vita, fino a tempi recenti, promuovendo infiniti e forse ripetitivi «cantieri della sinistra», affollati da personaggi ormai attempati, e sempre di fatto inconcludenti: il che non toglie valore alla tensione che aveva prodotto quei tentativi. Ma forse il compito del giornale non è più questo, e non comunque negli stessi termini.
Pure afflitto costantemente da minoranze di lettori che lo vorrebbero «organo» di qualche partito o corrente di partito, e che gli addebitano smodate simpatie per la fazione che essi avversano, va riconosciuto che il manifesto ha avuto il grande merito di non cedere più alla tentazione di farsi giornale-partitello. Né di credere che il suo compito sia quello di alleviare il lutto di svariate piccole culture tribali in via di estinzione.
Il problema, semmai, è quello di riuscire ad avere una linea originale e autonoma, una disposizione all’ascolto ricettivo ma non passivo, che comporta l’obbligo di tentare comunque una sintesi interpretativa della realtà. Perché il «pluralismo», necessario e indispensabile, in sé e per sé non può bastare, laddove in realtà convivono molte culture che non si intrecciano più ma si giustappongono e quasi non dialogano più tra loro.
Valentino Parlato conclude il suo libro col richiamo al mito di Anteo, che fu già caro a Stalin come a Roosevelt negli anni Trenta: «Le ripetute crisi del manifesto mi hanno ricordato il mito di Anteo. Il combattivo gigante libico… vinceva perché tutte le volte che cadeva per terra (la Terra era sua madre) riprendeva le forze e batteva l’avversario. In tutte le ripetute crisi del manifesto la Madre Terra sono stati i lettori compagni, il popolo del manifesto che sempre ci ha ridato forza». Poi deve essere accaduto qualcosa, forse la terra è sembrata troppo lieve, e anche Valentino Parlato si è aggiunto, imprevedibilmente, alla mesta Spoon River degli annunci di ritiro.
Cosa si può dire, dall’esterno, di fronte a uno stillicidio di abbandoni fatti di brevi lettere che a tutto alludono ma nulla spiegano? L’ultimo chiuda la porta. Ma poi per favore qualcuno la riapra subito, in un ambiente più accogliente e rinnovato, dove vecchi e nuovi possano tornare a discutere e collaborare, magari anche litigando. Perché di un giornale come questo ci sarà sempre bisogno.

*Il Manifesto

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