Ventun giorni prima dell’undici settembre

1 Febbraio 2010

11settembre

Natalino Piras

G 8. Il nostro cuore di tenebra è immenso. Sono passati secoli e secoli da quando, nell’autunno del medioevo Istefane Dorveni risalì il fiume Tirso sino alle sorgenti, nel monte Lerron. È qui che  Kurtz, capitano di ventura alemanno, fondò un regno assoluto e sanguinario. Erano passati settecento anni e nel luglio 2001  io fui a Genova per il G8, quello che, scrisse  dal carcere Adriano Sofri, “sono in arrivo un po’ dappertutto i detenuti sgomberati per far posto agli arrestati”. Se ne prevedevano duecento ma furono molti di più. Le prigioni improvvisate, palestre scolastiche trasformate in mattatoi traboccavano, mentre i terribili black block, neri fomentatori di guerra,  scamparono il carcere e  la morte. Anch’io finii in carcere. Fui preso in una delle tante retate quando la guerra ebbe il suo culmine. La cella era stretta, una luce al neon che  nessuno poteva spegnere. Sangue schizzato sul pavimento e sui muri, tanfo di urina e di feci furono il collante. «Perché sono qui? Vengo da Bologna, dal Dams dove ho fatto dottorato di ricerca, un lavoro sul pane con un discepolo di Piero Camporesi, l’ omaccio dall’ enorme anello quadrato che sembrava un vescovo medioevale. Diceva il discepolo: “Che voce d’orco aveva.”  Infieriva  sui sottoposti con il classico “lei non ha capito mica niente”. Barbablù di nome e di fatto,  un vero mastru Juanne, che poi è la fame. Anche io in realtà facevo ricerca su mastru Juanne, nel sud mondo di adesso, e pensando a Camporesi, che la studiava e la metteva sui libri per combatterla, mi veniva da ridere quando lo rassomigliavo a certe caricature di Grosz, corpulenti e panciuti capitalisti in tuba e monocolo che hanno sederi debordanti e avana in bocca. Imponenti e crudeli come i nostri prinzipales, quelli che camminavano in piazza a giacca spaparanzata, i due pollici ben ficcati dentro Aggiungi nuovoil panciotto.  Camporesi, i prinzipales! Ecco perché sono venuto al G8, per vedere in faccia mastru Juanne e se possibile cercare di fargli del male!» «Io non ero con i black block di Bin Laden, reincarnazione del diavolo, insomma anche lui parente di mastru Juanne, se è vero che ancora oggi fame con guerra fanno la trama.  Lo sapete, vero?, che mastru Juanne, maestro Giovanni, è un nome apotropaico, scaramantico. Io comunque non ero con i black block. Ero in mezzo ai pacifisti e non avevo voglia di venire a Genova. Solo che  Perse, la mia compagna, si è messa in testa di partire e io temendo di perderla per davvero, la mia Perse, mi sono imbarcato con lei. Dovevo prevederlo che ci sarebbe stata tempesta: il mare di Porto Torres era diventato  troppo calmo all’improvviso, al momento che la nave salpò. Lo vidi oleoso, lo sentii maleodorante, proprio come il mare del porto di Genova verso cui eravamo diretti. Segni di tempesta a venire che solo gente come me è capace di sentire, uno dal cuore presago in mezzo a turba di cori e di bandiere rosse, verdi, gialle e con i quattro mori, agitate sui ponti del traghetto come stessimo andando alla battaglia di Lepanto. Perse rideva in mezzo alla turba e mi sembrava la ragazza della ballata di Pereduc, popolare da noi, tanto era bella, sicura e sfrontata. Io invece non cantavo, pensavo ai bambini lasciati a casa, affidati a mia madre vecchia. Chi sa se li rivedrò i miei figli, se usciremo vivi da questa prigione, se torneremo a Chentomínes, ai nostri punti sparsi, alle nostre scuole. Sapete:  Perse insegna lettere al liceo mentre io sono precario, lann’e ventu,  una ghianda che il vento scuote  dall’albero.» «Io faccio abitudine al carcere.  Sono un ex combattente. Ho conosciuto la tortura, lo stare per molto tempo inginocchiato sopra sassi aguzzi  e sul sale. Quando mi rimettevano in piedi, da bere mi davano piscio. Come ai tempi del capitano Brecht nella neve di Espiritu, l’inverno del cinquantasei.  Io so l’isolamento. Anni e anni in sotterranei con la luce sempre più  bianca e incandescente,  rayo che no cesa, per dirla come  Miguel Hernandez nelle carceri franchiste. E non potevo parlare con nessuno, né leggere, né scrivere, né ascoltare musica, né ricevere lettere. Chi mi avrebbe scritto poi? Erano tutti morti. Quante volte mi hanno portato dentro cortili chiusi, cemento armato, gabbie immani dove nel muro che mi si parava davanti c’era un quadrato bianco. Là mi appoggiavano e mi toglievano la benda. C’era il plotone d’esecuzione pronto a fucilarmi. Facevano finta. Mi dicevano: “La prossima volta ti ammazzeremo davvero.”» «Io tutto ho scontato. E mi sembra al confronto che il carcere di adesso sia una burla. Anche se, per dirla come Moscinto, qui , qui a starci troppo  qualcuno si rompe le braccia, le gambe e pure l’osso del collo. Moscinto era un povero maestro di muro che mia madre chiamava d’estate per rivoltare le tegole rotte. Raccontavano a Chentomínes che quando Moscinto lo mandarono alla grande guerra lui ci arrivò ingenuo e semplice, così come era al suo paese. Si affacciò alla trincea, vide l’immane macello e si mise a balbuziare: “Ki-ki-qui-qualcuno si fa male davvero.” Così è la guerra: con le regole tutte sue che vanno bene per uno come mastru Juanne che regole non ne ha in quanto è un criminale vagante. Dove ci sono confusione e tumulti lì c’è mastru Juanne.  Carestia, fame e  guerra sono pasto suo. Non ci siamo riusciti noi ad abbatterlo questo mastru Juanne, noi  che pure  avevamo lo Spirito dalla nostra parte. Immaginate tutti gli eserciti di adesso. Mastru Juanne non lo si sconfigge movendogli guerra. Perché non lo si veda più bisogna saziarlo e per saziare lui bisogna scatenare da qualche altra parte qualcos’altro che gli somigli:  peste, guerra e ancora fame. Come vedete la storia non muta.»

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