Sardi resistenti

16 Aprile 2010

madau

Marcello Madau

Lo ammetto. Sono da tempo nella ‘squadra’ dei critici della costante resistenziale’. Ma voglio subito dire che la mia critica è rivolta soprattutto all’individuazione dei soggetti che resistettero; e non vi è dubbio che la resistenza all’abuso, all’ingiustizia, all’invasione, ci appartiene. In buona compagnia: si pensi a popoli meridionali e centro-italici come i Lucani, i Sanniti, i Brettii, i Dauni e altri ancora, rispetto ai domini greci, fenici e romani. In genere assieme a tutti coloro, e non sono pochi, che nella storia cercarono di resistere ai soprusi e alla conquista.
La ‘costante resistenziale’ di Giovanni Lilliu ha costruito diverse emozioni e stagioni culturali per la Sardegna, con una lettura di ‘lunga durata’ che nasce nei tempi e nel dibattito di Lussu, Pigliaru, Cardia, Laconi, Le Lannou, ed ha avuto il merito di portarci ad esaminare la storia come stratificazione costitutiva dell’essere dei nostri tempi; consolidando anche l’orgoglio di appartenere ad un popolo che più di una volta, nel corso di conquiste e colonizzazioni, ha saputo resistere e non chinare la testa.
Da archeologi è possibile non condividere diversi punti della ‘costante resistenziale’ , ma a molti di noi, sardi in particolare, Giovanni Lilliu ha insegnato a non sentire la professione distaccata dalla contemporaneità e dall’ impegno civile. Un merito straordinario.
Vorrei allora analizzarne le ragioni. almeno per la parte antica, e vedere quanto letture e messaggi siano utilizzabili: sia per quel che riguarda la scienza storica, sia per la costruzione dell’identità, sia per quel nostro essere cittadini e militanti in perenne rivolta contro lo stato di cose presente.
Con il progredire della ricerca ed il conseguente affinarsi delle possibilità di lettura, la costante resistenziale ha mostrato non pochi limiti teorici ed interpretativi, anche se non è lecito porla allo stesso livello delle mitografie fasulle di ieri e oggi, prodotte con una partogenesi che sembra inesauribile: la si condivida o meno, siamo in presenza di una riflessione di alto livello e di spessore storico significativo.
Alcuni presupposti si trovano nell’importante ‘Sardegna anticlassica’ scritto da Lilliu nel 1946, nel quale l’archeologo di Barumini contrapponeva alla costruzione del Winckelmann l’orgoglio dell’anticlassicità isolana, costantemente in grado, dalla preistoria, di permeare e attraversare arte e artigianato sardi. Vi è una stretta relazione con le critiche alla visione winckelmaniana operate da Ranuccio Bianchi Bandinelli, etruscologo e romanista e il suo contrapporvi l’anticlassicismo etrusco e italico.
Ma la costante resistenziale si misura su tempi diversi da quelli dell’anticlassicità tracciata nel saggio del 1946, anche se non può non tenere conto – è nel suo stesso patrimonio costitutivo – della caratterizzante ‘barbarica’ della Sardegna (peraltro condivisa, ricorda Lilliu, con la cultura fenicia e punica, anch’essa almeno in parte ‘anticlassica’ e sulla quale Lilliu elaborò una mirabile tesi di specializzazione). La sua trama si dispiega quindi non dalla preistoria, ma nello sviluppo della società nuragica in parallelo a quella fenicia e punica. La resistenza entrerebbe storicamente in azione con le campagne cartaginesi della seconda metà del VI secolo a.C. e in particolare dalla conquista di Cartagine ufficializzata nel primo trattato fra Cartagine e Roma, nel 510 a.C. Affermare che l’indipendenza, e quindi il suo legame con la resistenza, sia stata una risorsa coltivata dai nuragici, unitariamente, nella loro dolorosa sconfitta, appare molto problematico.
Voglio ricordare in particolare due dati archeologici: il primo è che nell’età del Ferro (cioè dal 900 a.C. circa), in parallelo con premesse, nascita e radicamento della territorialità fenicia, i centri nuragici andavano verso una rarefazione da un lato ed una concentrazione del potere dall’altro, senza arrivare ad una vera e cosciente unificazione nazionale (per quanto il termine possa valere per quei tempi). In tale processo non trova evidenza l’idea e la forma di una Sardegna nuragica indipendente (qualche accelerazione in tal senso fu probabilmente creata dalle campagne militari del cartaginese Malco), ma al massimo di alcuni centri che più o meno lo erano.
In due-tre secoli il mondo nuragico, ancora riconoscibile fra l’VIII ed il VII secolo a.C. (in parte nelle città fenicie, in parte nel territorio, in parte in Etruria) lascia tracce sempre più flebili, almeno nella cultura materiale, con una lettura archeologicamente non priva di difficoltà.
Il secondo è che una parte rilevante di queste élites nuragiche (o aristocrazie, per chi preferisce il termine), produssero momenti di integrazione significativa con i Fenici, con particolare evidenza nelle necropoli di Tharros e Bithia, nei santuari tofet, ed anche, in modo straordinario, a S. Imbenia di Alghero. Ciò che indica un coinvolgimento entro il modello socio-economico dei Fenici. La causa di tali relazioni non si coglie se non si analizzano i modelli espressi dalle diverse formazioni economico-sociali, il peso delle produzioni e il modificarsi delle forze produttive.
Per certi versi fu contro questa integrazione che Cartagine, nel progressivo non facile controllo delle città fenicie (e della situazione relativamente policentrica e ‘meticcia’ che esse disegnavano nell’isola), portò un intervento assai duro nella seconda metà del IV secolo a.C. Ricordo ancora con stupore, nello scavo condotto a Tharros nel 1989 assieme a Paolo Bernardini, la drammatica evidenza della distruzione operata dai punici sui luoghi sacri fenici. Altro che intervento effettuato per aiutare i fenici contro i nuragici!
La costruzione della memoria culturale basata sulla continuità eroi nuragici-resistenti montanari è quindi un elemento di vera fragilità: gli eroi militari che vediamo nei prodigiosi bronzetti e nelle statue di Monti Prama più che resistenziali sembrano – senza vedere in ciò un fatto necessariamente negativo – collaborativi.
La divisione fra reucci e reucci, e fra reucci e gruppi subalterni non inclusi nella ‘modernizzazione’ fenicia e nuragica (il fenomeno della divisione e delle fratture viene ricordato dallo stesso Lilliu, e percepito con lucidità persino da Emilio Lussu) generò allontanamento degli elementi pastorali dai centri urbani (o regressione a questo modo produttivo da parte di indigeni che non ne facevano parte): è l’indicazione che si percepisce dal racconto delle fonti classiche, in particolare dai passi di Pausania e Diodoro Siculo.

Questi gruppi furono certamente resistenziali. Ma non sempre nè comunque. La Barbarìa non fu inaccessibile alle dominazioni, e nella storia l’alternativa non è sempre fra resistenza o collaborazionismo. Si iniziò sicuramente un percorso, tortuoso, di autocoscienza, mitizzato e che oggi sembra, almeno nelle zone originarie, esaurito. E comunque non vi è ricostruzione piena dell’identità senza pensare e considerare gli altri elementi indigeni, in maggior parte subalterni, nella gestione punica delle terre progressivamente conquistate sino alla monocoltura agricola, talora gestita da proprietari di grande censo come Amsicora.
Senza queste pluralità sarde, l’evidenziazione di una resistenza unicamente interna sfiorò e toccò, soprattutto nelle prime enunciazioni teoriche, pericolose derive etniche.

Io penso quindi che una trama coerente dell’identità debba tenere conto sia dei ‘resistenti’ delle montagne, sia dei sardi che costruirono storia e cultura nei centri del potere, sia dei contadini che lavorarono in modo subalterno nelle proprietà puniche e romane, lasciandoci una cultura materiale che solo da poco si cerca di cogliere e valorizzare. Nella documentazione ormai ampia degli ex-voto figurati di matrice popolare si legge di nuovo – meglio che nelle montagne resistenziali – quella cifra ‘anticlassica’ che proprio Lilliu ebbe a individuare nel saggio del 1946 citato all’inizio.
Nella resistenza anticlassica e antiromana sarebbe bene guardare al di là delle coste, oltre il mare. Allora era più difficile unirsi: o meglio, lo facevano gli imperi che tutto sottomettevano. Oggi, pur tra mille difficoltà, fra le trame orizzontali della comunicazione digitale è più facile riconoscersi e comunicare E forse la stessa questione meridionale potrebbe rileggersi meglio leggendo –nelle ovvie differenze – i molti ed importanti elementi di contatto, ancora e non meno ampiamente mediterranei, dalle piccole isole del primo Oceano Pacifico alla Palestina.

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