Quando il mondo dorme di Francesca Albanese
23 Settembre 2025[Bastiana Madau]
Il saggio di Francesca Albanese Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, pubblicato da Rizzoli a maggio del 2025, esce ora in Francia per le edizioni Mémoire d’encrier ed è sicuramente destinato a fare il giro del mondo con ulteriori traduzioni.
Il libro conduce il lettore e la lettrice nel ricco percorso di conoscenza e formazione di una coscienza alle prese con la scoperta e l’investigazione di un mondo popolato di una umanità dolente, ma anche sofisticata, con una profonda attitudine poetica e narrativa, stagliata anche nell’esilio sullo sfondo di una delle pagine più tragiche della storia contemporanea.
Nonostante l’incandescenza della materia trattata, ci troviamo di fronte una scrittura di grande compostezza, storicamente fondata, ma segnata anche dalla grazia dell’ascolto autentico del prossimo. Dopo una ricca introduzione, si susseguono nove capitoli intitolati con il nome di una persona incontrata e sottotitolati con una domanda ineludibile, sorgente dalle storie apprese, dalle strade incrociate, dai paesaggi della Palestina storica e da quelli sconvolti dall’occupazione, spiegati specialmente attraverso l’incontro con Eyal, nel capitolo omonimo.
Eyal Weizman è un architetto israeliano nato ad Haifa, docente di Cultura spaziale e visuale alla Goldsmiths University di Londra, che documenta come la pratica architettonica e urbanistica sia stata per anni lo strumento strategico atto a generare un processo di rimodellamento del territorio che costringe i palestinesi a vivere in un mosaico di spazi sigillati, puntellati di check point, mentre gli insediamenti israeliani, costruiti sulle alture e collegati tra loro da infrastrutture viarie aeree, sovrastano i villaggi palestinesi sottostanti.
Una «politica verticale» che ha determinato paesaggi stranianti, disorientanti, la cui descrizione troviamo anche in tanta parte della narrativa arabo-palestinese. Nel contesto delineato dall’analisi urbanistica e paesaggistica di Ayal, si individua che l’oppressione israeliana è iniziata molto prima del terrificante eccidio del 7 ottobre, come Albanese ha ricordato anche di recente in una lettera al Corriere della Sera, in cui peraltro dichiara per l’ennesima volta di non nutrire «alcuna simpatia per Hamas», ma che «nulla può giustificare la carneficina a Gaza, né tanto meno un’occupazione permanente divenuta apartheid e oggi, sotto gli occhi del mondo, genocidio». In Quando il mondo dorme l’autrice si sofferma in particolare sulla segregazione che regola da tempo le relazioni tra palestinesi e israeliani, che si configura come apartheid, definizione presente anche nei report di Human Rights Watch, Amnesty International, B’Tselem.
Tramite il racconto degli incontri con alcune straordinarie guide gerosolomitane, Albanese conduce a Gerusalemme e fuori dai suoi confini, oltre la retorica della Città Santa, ed è tanto filologica nel segnare gli snodi del suo percorso quanto generosa nel manifestare gratitudine per la tanta conoscenza ricevuta da coloro che, a diverso titolo, hanno lavorato in Palestina e sulla Palestina, e che hanno arricchito il suo lavoro documentale con stralci di vita. Un lavoro colmo anche di amicizia. È anche per questo motivo che, pur essendo molto doloroso, questo libro è speciale, perché tra le righe ci arriva una visione della cultura che si propaga in reti relazionali segnate da curiosità, reciprocità d’ascolto, zero pregiudizi.
Francesca Albanese non parla per i palestinesi: parla con i palestinesi – anche con i più piccoli, e porta la loro voce nelle istituzioni internazionali. Ma sa bene che le persone non nominate, private quindi della loro identità, nel giro di poco tempo è come se non fossero mai esistite. «Preservare l’umanità dell’altro, impegnarsi per continuare a vederne l’unicità senza normalizzare e senza appiattire, significa di per sé contribuire alla lotta contro il genocidio», scrive. «Tutti i colonizzatori e tutti gli strumenti di genocidio operano non solo uccidendo materialmente le persone, ma anche cancellando l’identità di un popolo. […] Qual era il senso del numero che le persone portavano tatuato addosso nei campi di concentramento se non questo?».
È stato il Nobel Elias Canetti, nel suo capolavoro intitolato Massa e potere, che per primo ha analizzato come dietro la distruzione metodica di un gruppo etnico o religioso si nasconda una parola chiave: massa. Agli occhi dei carnefici le vittime perdono ogni tratto di singolarità. Donne, uomini, vecchi, bambini: quello che gli assassini vedono davanti a sé è un mucchio indistinto da eliminare più in fretta possibile. Di fronte a una materia tanto tragica c’è chi procede al contrario, e dalla massa informe estrae volti, storie, individui, ridonando a ciascuno un nome, attingendo al patrimonio più prezioso di cui disponiamo: la voce per raccontare, la penna per scrivere.
È anche la filosofia che governa l’organizzazione degli scrittori palestinesi emergenti di We Are Not Numbers, fortemente voluta dal poeta e docente Refaat Alareer – il professore che amava Shakespeare, scrive Albanese –, ucciso in un bombardamento israeliano a Gaza il 6 dicembre 2023, insieme a suo fratello, sua sorella e quattro bambini. «Se devo morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia» è il suo lascito artistico, spirituale, politico, originato dalla consapevolezza di come, nei teatri di guerra, le vittime diventano numeri da conteggiare nei bollettini, a cui, giorno dopo giorno, le persone sembrano assuefarsi. A questo l’autrice si ribella in ogni pagina di Quando il mondo dorme, e a partire dal primo capitolo del libro, toglie dall’uniformità dei sudari più piccoli il nome di una bambina di 6 anni (6 anni per sempre), ne illumina il viso, le presta la voce, le restituisce il suo nome.
Si chiama Hind. Hind Rajab. È un metodo umanista, che mette al centro la capacità di tenere gli occhi aperti e di vedere oltre i numeri senza storia, a maggior ragione quando il mondo dorme, per contribuire al suo risveglio, al risveglio della ragione. Così, a partire dalla storia di Hind, trovata uccisa nell’abitacolo di automobile crivellato dal oltre 300 proiettili delle forze armate israeliane, ci conduce a scoprire il mondo dell’infanzia in Palestina, scrivendo dei focus group attivati con loro da qui a Gaza, da qui alla Cisgiordania occupata, mostrandoci come le bambine e i bambini palestinesi – di cui rivela tanti nomi ed età – crescono sotto l’occupazione.
La violenza contro di loro è sistemica. Vivono la perdita della casa, della libertà, della sicurezza. Diventano grandi in fretta, gravati da paure, responsabilità, e un senso di ingiustizia che li accompagna come un’ombra. Per questo motivo, il 25 ottobre del 2023, Albanese ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il suo terzo rapporto, totalmente dedicato all’infanzia, utilizzando il termine “unchilding”: privare dell’infanzia.
Tuttavia, anche quando scrive delle creature più indifese, Albanese non sembra mai chiedere lacrime, ma coscienza, ben sapendo che, quando essa è autentica, può diventare atto. Così, ad esempio, ci introduce alla conoscenza del BDS, un movimento fondato sul diritto internazionale e ispirato alla lotta contro l’apartheid sudafricano, che vuole colpire i regimi oppressivi «alla tasca», chiedendo a tutti consumi etici, alle aziende di disinvestire, agli stati di sanzionare Israele per costringerne i governi a rientrare nei ranghi del diritto internazionale e nel rispetto dei principi universali sui diritti umani.
L’autrice ci descrive e informa su queste e altre forme di lotta raccontandoci dell’incontro in Cisgiordania con Ingrid Jaradat Gassner, ed è anche questo un capitolo colmo di riconoscenza. Così come grato si presenta l’incontro con Gabor Matè, sopravvissuto alla Shoa, medico e psicoterapeuta non solo dell’individuo, ma della collettività, che esplora il punto di contatto tra ebrei e palestinesi, ovvero il trauma, che non è solo ciò che accade, ma ciò che continua ad accadere dentro le persone in risposta a quell’esperienza. E dice dell’importanza del «riconoscere il dolore come unico modo per iniziare a guarire». Anche qui Albanese spazia su questioni cruciali: dall’importanza del preservare la memoria dei popoli della terra alla consapevolezza che è ora di smetterla di leggere il mondo attraverso le lenti dei colonizzatori, dimenticando come la colonizzazione, almeno a partire dalla cosiddetta “scoperta dell’America”, si sia sempre concretizzata nell’eliminazione dell’altro, nella sua sottomissione, nello sfruttamento intensivo delle risorse e dell’ambiente.
Per il suo straordinario impegno, per la pratica della «solidarietà come declinazione politica dell’amore» e per quel coltivare la «disciplina della speranza, come scrive in Quando il mondo dorme, Francesca Albanese è meritoria del Premio Nobel per la Pace, hanno detto in molti, firmando le diverse petizioni che ne caldeggiano la sua candidatura. «Non mi importa di essere candidata al Nobel – ha dichiarato la Relatrice speciale ONU –, quello che mi interessa è se questa cosa può servire a fare luce su quanto sia accaduto in Palestina. Se può servire, allora ben venga».
Parole semplici, ma potenti, che restituiscono, insieme al suo ultimo libro, il profilo umano e professionale di una donna che ha scelto di mettere la propria competenza e la propria voce al servizio dei diritti umani, della giustizia, della pace.