Gung-ho e Apollon

16 Luglio 2010

zanda

Antonello Zanda

A Pomigliano d’Arco, con il referendum-ricatto che ha costretto i lavoratori ad una scelta lacerante, si è giocata una partita che riguarda il futuro di tutti, perché riguarda le regole del gioco che stringeranno la mano alla gola dei lavoratori dell’industria (ma non solo loro) nei prossimi cruciali anni. Un ricatto evidente, perché il voto ha chiuso spazi di riflessione e di ragionamento, ha impedito di guardare a una prospettiva focalizzata dal (e nel) rispetto dei diritti e della persona. Una forbice molto netta che ha fatto scegliere – aut aut – tra un lavoro da schiavi oppure la fine di una storia, cioè l’angoscia della disoccupazione, la fine dei propri sogni, del proprio futuro così come ce lo siamo disegnati nella mente. Marchionne e la Fiat chiedono 280 mila auto all’anno, 23333 al mese, 1052 al giorno. Per raggiungere questi risultati l’azienda deve imporre ai lavoratori ritmi e condizioni di lavoro asfissianti. E siccome non basta bisogna anche porre le condizioni per avviare lo smantellamento definitivo dello statuto dei lavoratori, per fare strazio di alcuni diritti acquisiti come diritti della persona come per esempio il diritto di sciopero. Se non fosse la realtà penseremmo ad un film. Ma se guardiamo proprio al cinema questa storia non è del tutto nuova. Nel 1986 l’americano Ron Howard realizzò un film dal titolo Gung Ho. Arrivano i giapponesi. Il titolo viene dal cinese Gōnghé, che abbrevia un’espressione che significa “cooperativa di lavoratori dell’industria”. Poi la locuzione entrò a far parte dello slang del corpo dei Marines americani fino a transitare nei modi di dire della società americana, per cui oggi indica in tono ironico una persona esageratamente entusiasta e zelante (non siamo troppo distanti dalla versione antropologicamente postmoderna del “servo”). Questa articolazione di significati trova sintesi nel nocciolo narrativo del film di Howard, certamente non un capolavoro cinematografico, ma comunque carico di spunti e aspetti che al di là del buonismo interclassista dello sguardo americano trova collegamenti con la situazione attuale… senza dimenticare che la realtà è molto più dura e difficile della fantasia. Il film prende le mosse dallo stato di crisi che vive la fabbrica automobilistica di Hadleyville, che si riflette sulle dinamiche sociali della stessa cittadina. L’intraprendente Hunt Stevenson pur di salvare il lavoro dei dipendenti riesce a convincere un gruppo industriale giapponese a rilevare la fabbrica. Lo stereotipo stakanovista dello spirito integrale giapponese si scontra ben presto con la filosofia di vita del movimento operaio americano, poco incline al rigoroso e implacabile automatismo della logica lavorativa nipponica. I conflitti vengono subito al pettine e alla richiesta dei lavoratori di un salario garantito a partire dai minimi contrattuali i giapponesi rispondono chiedendo puntualità e precisione e stigmatizzando il lassismo e l’assenteismo di cui gli operai si rendono protagonisti. Dopo la prima tregua i giapponesi alzano il tiro e impongono turni massacranti per un tetto produttivo sempre crescente. A questo punto la deriva narrativa tutta americana viene fuori prepotentemente intrappolando l’intreccio verso la conclusione e Stevenson trasforma il conflitto in una sfida: i giapponesi non chiuderanno la fabbrica se gli operai riusciranno a produrre 15000 auto in un mese. Come finisce la storia del film è scontato. Tutta aperta è la partita invece del movimento operaio reale (e virtuale) di oggi. Dietro le quinte del referendum, che peraltro nel suo esito non ha soddisfatto le ambizioni plebiscitarie dell’azienda e dei sindacati ormai ridotti a zerbino (non è necessario specificare a chi mi riferisco), si agita il grande manovratore che spinge la macchina verso la cancellazione dello statuto e l’asserviemnto degli operai. L’esito del referendum in realtà ha sottratto la domanda ricattatoria alla nefasta fisiologia dell’aut aut, che costringe al tertium non datur. E invece il referendum ha confermato il respiro del convitato di pietra… Non so se questo sia segno di una ripresa maturità di questa classe operaia evanescente oppure sia, più probabilmente, segno di una debolezza e di un declino lento del capitalismo (perché la globalizzazione, mentre segna un’espansione dell’esercizio capitalistico e quindi uno sviluppo del mercato, riduce allo stesso tempo e progressivamente il suo spazio vitale). Il film di Ron Howard è schierato con il modello servile di operaio (e di sindacato), che accetta e subisce le regole che impone l’organizzazione dei padroni. Se riconosciamo al cinema anche la capacità di rappresentare modelli, contro quello di Gung Ho possiamo ricordare il magnifico film docufiction Apollon. Una fabbrica occupata, anno di grazia 1969 – l’anno delle grandi lotte operaie e dell’autunno caldo – per la firma di Ugo Gregoretti. Si tratta di un cinegiornale che racconta la storia della lunga lotta per non perdere il posto di lavoro intrapresa dagli operai di una delle più grandi tipografie di Roma, l’Apollon. Interpretato dagli stessi operai che discutono e occupano la fabbrica, questi si muovono per dare visibilità mediatica alla loro lotta, per portare la discussione fuori dalla fabbrica. Nel rivedere quel film sembra di sentire lo spirito che oggi muove gli operai della Vinyls che hanno occupato l’Asinara. Del resto lo stesso film nasce dall’iniziativa degli operai che chiesero a Zavattini e Gregoretti di raccontare la loro storia per farla circolare in tutta Italia. Lasciamo invece volentieri agli studiosi degli scherzi della storia la lettura del fatto che mentre gli operai che ricostruiscono la lotta dell’Apollon sono gli stessi protagonisti di quella lotta, per interpretare i ruoli della controparte padronale e dei poliziotti furono chiamati sindacalisti e intellettuali del PCI. Ne è nato comunque un film manifesto, riuscito sotto il profilo cinematografico, ancora oggi fresco e attuale, ma soprattutto fortemente simbolico e rappresentativo di un’idea di lotta e di movimento operaio capace di ripensare e ripensarsi nel lavoro e nella prospettiva di una società in cui il ruolo del lavoratore (e del lavoro) è fondamentale. Quegli operai di allora come quelli della Vinyls di oggi, come quelli di Pomigliano d’Arco che hanno detto no al referendum e i tanti che resistono ai carri armati del Governo e della Confindustria, riaffermano la centralità della Costituzione, allargando così ogni discorso relativo al loro posto di lavoro alla politica e quindi a un modello di società civile e democratica. Ecco perché la loro lotta è la stessa che i giornalisti e il mondo della cultura stanno sostenendo contro le leggi bagvaglio e contro i feroci e indiscriminati tagli della manovra finanziaria. Apollon disegna uno scenario di protagonismo esattamento alternativo a Gung Ho. Davvero qui tertium non datur: per ritrovare forza e capacità di determinare il proprio presente e il proprio futuro, se esiste qualcosa che ancora oggi si può chiamare “movimento dei lavoratori”, questo dovrebbe ripartire da Apollon.

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