Alcoa

16 Gennaio 2010

alcoa

Costantino Cossu

Alcoa va avanti per la sua strada. Il sit in degli operai degli stabilimenti di Portovesme e di Fusina, venerdì 15 gennaio, davanti all’ambasciata Usa a Roma per chiedere un intervento dell’amministrazione Obama sulla multinazionale statunitense non è servito a nulla. Alla manifestazione nella capitale c’era tutto il panorama istituzionale sardo, eppure non si è riusciti ad ottenere un incontro né con l’ambasciatore americano né con la presidenza del consiglio dei ministri. L’unica risposta è arrivata dal ministero del Welfare e suona come una provocazione. Mentre la delegazione del Sulcis e i presidenti di giunta e consiglio regionali manifestavano davanti all’ambasciata statunitense, i sindacati nazionali di categoria hanno ricevuto dal ministero del Welfare una convocazione per il prossimo 20 gennaio per la gestione della Cigs dei dipendenti Alcoa. La replica, dura, è arrivata da Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom Cgil: «Il sit in a Roma davanti all’ambasciata degli Stati Uniti è un ulteriore segno che la vertenza Alcoa riguarda la politica, nel senso più vasto del suo significato». «La multinazionale di Pittsburgh — ha ricordato Cremaschi — sta decidendo, nella sua sede centrale in Usa, se mantenere o no l’insediamento in Italia. E’ evidente che questa decisione non riguarda solo la difesa dell’occupazione in Sardegna e a Venezia, ma le politiche industriali del nostro Paese e il ruolo che, in esse, hanno le grandi multinazionali. Per questo il governo, che ha fornito sul piano tecnico tutti gli strumenti per ridurre il costo dell’energia per Alcoa, deve oggi agire sul piano politico, usando tutti gli strumenti di pressione necessari a far sì che questa multinazionale non decida di liquidare un intero settore industriale dotato di un ruolo strategico per il nostro Paese». «Per questo — ha aggiunti Cremaschi — riteniamo assurda la convocazione che abbiamo ricevuto dal ministero del Welfare. E’ evidente infatti che la cassa integrazione entrerebbe in gioco, in questo caso, solo come uno strumento per chiudere gli stabilimenti. Non abbiamo nessuna intenzione di partecipare a quell’incontro e sollecitiamo il governo, ancora una volta, a convocare nella sede politica un nuovo confronto. E’ evidente che se l’azienda dovesse assumere decisioni negative, dovrebbe essere la stessa presidenza del Consiglio ad assumersi la responsabilità del confronto e delle iniziative necessarie a salvaguardare gli stabilimenti italiani del gruppo Alcoa».

Per la Alcoa il nodo da sciogliere è quello dei costi dell’energia, che per i manager Usa sono insostenibili, se restano agli attuali livelli. La proprietà chiede sconti. Una settimana prima della manifestazione davanti all’ambasciata Usa, il governo italiano, durante un vertice al ministero dello Sviluppo, ha proposto ad Alcoa una tariffa intorno ai trenta mega watt per ora. Ma all’azienda non basta. Al termine del summit il colosso di Pittsburgh ha consegnato ai sindacati una nota in cui annuncia le sue scelte: «Abbiamo lavorato intensamente — dicono i manager del gruppo — con il governo italiano, con varie società fornitrici di energia e con i sindacati per trovare una soluzione che permetta di ridurre i costi delle forniture di energia e quindi di mantenere operativi gli stabilimenti di alluminio primario di Fusina in Veneto e di Portovesme in Sardegna. Nonostante siano stati fatti passi avanti, non è stato possibile raggiungere una soluzione». Secondo i manager del gruppo Usa, ai prezzi correnti dell’elettricità gli impianti italiani di Alcoa perdono tra i cinque e gli otto milioni di euro al mese. «Con tali perdite e senza una soluzione di lungo termine — sostiene l’azienda — non possiamo continuare ad operare. Conseguentemente riattiveremo la cassa integrazione». E il ministero del Lavoro ha subito accolto la richiesta. Il tutto è reso ancora più complicato dal fatto che l’Unione europea si oppone agli sconti sulle tariffe energetiche, perché li considera una turbativa delle norme comunitarie che tutelano la libertà di mercato. Per le riduzioni che Alcoa ha ottenuto negli anni passati la Commissione europea ha richiamato ufficialmente il governo e ha inflitto all’azienda Usa una pesante ammenda.

Difficile ora tornare indietro. Per riaprire le trattative il gruppo americano detta infatti condizioni pesanti: «Perché la produzione possa continuare — si legge nella nota consegnata ai sindacati — sono necessari i seguenti requisiti: 1) prezzi energetici competitivi, 2) una fornitura di energia pluriennale, 3) una soluzione che sia accettabile dalla Commissione europea».

Se la fabbrica di Portovesme chiudesse, le ricadute su tutto il polo industriale del Sulcis sarebbero serissime. Nello stabilimento sardo lavorano seicento operai, altri cinquecento sono impiegati nelle ditte che operano in appalto, altri mille nell’indotto.

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