Alzabandiera nel mare di Gaza
9 Ottobre 2025
[Gianni Loy]
Il sacrificio è gesto estremo, ma è nella tradizione della cultura dell’occidente cattolico. Tradizione – o fede – che ha origine da un Dio che si fa uomo e muore in croce per liberare l’umanità dalla schiavitù del peccato.
“Egli si è incarnato – scrive Dario Allasino su Famiglia cristiana – in un contesto di peccato ed ingiustizia, di cui ha assunto su di sé tutte le conseguenze, per solidarietà con quanti subiscono atrocità e violenze a causa della perfidia degli uomini”.
Una scelta – quella del sacrifico come forma di solidarietà e di lotta contro le forme più violente di ingiustizia – che si ripete frequentemente nella storia, nei momenti di maggior sofferenza e quando ogni altra invocazione rimane inascoltata.
Qualcuno ricorderà ancora il gesto di Thic Duan Durc, il monaco buddista che, nel 1963, si diede fuoco, nella pubblica piazza di Saigon, per protestare contro la dittatura politica – e religiosa, ché era in atto una violenta repressione della libertà religiosa da parte di un governo amico degli Stati Uniti e del Vaticano.
Gesto emblematico – poi imitato da altri bonzi – per essere stato rappresentato in piazza e fotografato, evento non affatto ovvio in quel tempo.
Gesto non sfuggito alla sensibilità di Jannacci, che utilizzando l’ironia per castigare i costumi – sulla scia di un’antica tradizione latina, frequentata da Molière e Marivaux – cantò la storia del bonzo che “sì è dato fuoco da sé perché vuole la libertà … la libertà de brusà, de brusà per poder campà”.
Quel rogo, e la sua rappresentazione fotografica, colpirono l’opinione pubblica mondiale e portarono le vicende del Vietnam all’attenzione dell’opinione pubblica. Impressionarono il presidente degli Stati Uniti, John Kennedy che commentò: “nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa, nel mondo”. Ma soprattutto – ed è questo il tema – impose al governo vietnamita di riconoscere la libertà di manifestazione del buddismo.
Molti parallelismi con l’attualità, con la differenza che gli Stati Uniti d’allora non avallarono la condotta repressiva di un governo amico ma si schierarono con chi subiva la prepotenza del potere. È curioso come la storia si ripeta, viene in mente la flottiglia che oggi viene accusata di esser finanziata da Hamas. Anche Il governo vietnamita di allora insinuò qualcosa di simile, e cioè che il monaco avesse compiuto quel gesto perché pagato dal fotografo americano che aveva realizzato il servizio! Quel gesto, altra similitudine, provocò grandi manifestazioni di piazza repressi dalle forze dell’ordine di un governo che, disattendendo il consiglio dell’alleato americano, qualche tempo dopo inasprì la repressione.
La morale è che alcuni gesti “simbolici”, e quello della flottiglia indubbiamene lo è, son capaci di risvegliare le coscienze, di suscitare solidarietà, di mobilitare il popolo.
Così fu nel 1968, quando Jan Palach, a 21 anni, ripeté quel gesto, in piazza, per lanciare “una speranza nel cielo di Praga” – come Guccini, per anni, non ha smesso di ricordarci – contro la feroce invasione russa della Cecoslovacchia. E tanti ancora, anche nel presente del movimento contro il genocidio di Gaza.
L’azione disarmata, forte e simbolica – che a volte programma consapevolmente il sacrificio, e più frequentemente mette in conto il rischio per la propria libertà e incolumità – può avere una forza dirompente, come nel caso della flottiglia: creare consenso, mobilitare, indurre le agonizzanti democrazie di un’occidente in decadenza, a schierarsi con le vittime piuttosto che con i carnefici.
Il potere teme i movimenti che risvegliano le coscienze, cerca di arginare le proteste. In Italia lo fa con l’aplomb di Tajani, con il “politicamente corretto” di Crosetto, e con la sicumera romaesca del (o della) presidente del Consiglio, che vorrebbe trasmettere sicurezza ai propri elettori ed invece rende manifeste le preoccupazioni – se non le divisioni – che attanagliano la maggioranza.
La flottiglia – e ciò grazie alle persone che l’hanno immaginata e fatta salpare – ha facilitato l’emergere di un sentimento – una sofferenza, una speranza, un’indignazione – che covava nel cuore di tante persone “di buona volontà” ed attendeva soltanto un segnale per esplodere.
Indignazione, sì, cresciuta di giorno in giorno di fronte ad immagini terrificanti di fonte alle quali non si può fingere di non vedere. Genocidio o sterminio?
Com’è curiosa la storia! Nelle stesse acque internazionali che il governo israeliano, oggi, recinge abusivamente con filo spinato, tanti anni fa nel 1947, riuscì a arrivare, clandestinamente, sino a 40 chilometri dalle coste della Palestina, una nave – ribattezzata Exodus – con a bordo oltre 4000 ebrei, molti dei quali sfuggiti ai campi di concentramento nazisti, che cercavano di raggiungere la terra promessa, che però non gli apparteneva. Furono intercettati dai militari inglesi, e a quanti, dopo essere stati riportati in Germania, rifiutarono di essere trasferiti in Francia: “dimezzarono le razioni giornaliere e disattivarono i riscaldamenti”[1]. Vi fu, anche allora, la reazione dell’opinione pubblica internazionale.
È accaduto tante volte: le persone di buona volontà si immedesimano nei gruppi che subiscono un trattamento inumano, che vengono scacciati dalla loro casa, umiliati, uccisi. Avvertono – avvertiamo – l’esigenza e il dovere di ricordare, di pretendere che l’umanità non venga sopraffatta dal cinico realismo. Un movimento culturale, quindi, prima ancora che politico. Anzi, morale, di una morale che ciascuno alimenta ispirandosi a differenti credenze e che – miracolosamente – si fonde un agire comune che da senso e nobiltà al nostro essere “umani”.
Non fu diverso, nell’ultimo scorcio degli anni 60, quando proprio sullo stesso percorso che muove dalla piazza Garibaldi, scendevamo in piazza per protestare contro lo sterminio – ma lo chiamavamo anche genocidio – del popolo vietnamita da parte degli americani. Furono gli studenti americani i primi ad insorgere, nei loro campus, poi la protesta contagiò il mondo intero.
Bruciavano con il napalm le loro case, le loro foreste, lo spargevano dall’alto con gli elicotteri, è così che li ammazzavano, col fuoco, senza pieta, per ubbidire ad una strategia di dominio. Ed anche allora, nel finire della guerra, fu la fotografia di una bambina, fuggita per strada dopo essersi liberata degli abiti in fiamme, a provocare l’ultimo sussulto di indignazione del mondo.
I simboli contano.
Lo slogan era “Johnson boia, giù le mani dal Vietnam”, poi fu Nixon a prendere il posto del presidente che, sotto la pressione del movimento, dovette rinunciare a riproporre la sua candidatura a presidente degli Stati Uniti d’America.
Anche allora, proprio come oggi, era la tensione ideale, e non l’appartenenza ad un partito, a riunire per strada migliaia di giovani che mai, prima di allora, avevano frequentato la politica.
Ben vengano quindi le flottiglie se, ancora una volta, il mondo potrà essere scosso da una speranza che mi sembrava – non posso parlare per conto altrui – si fosse perduta per strada.
[1] Ruth Gruber, Exodus 1947: The ship that launched a nation. New York: times Books, 1999. In https://archive.org/details/exodus1947shipth00unse