Assassinio alla Sapienza di Luciano Marrocu

20 Agosto 2025

[Gianni Loy]

Nell’ispezionare gli scaffali di una libreria recentemente aperta in via Garibaldi, all’incrocio con via Iglesias, ha richiamato la mia attenzione il titolo dell’ultimo lavoro di Luciano Marroccu: “Assassinio alla Sapienza” edito da Edes. 

L’argomento mi ha incuriosito, visto che di assassinii all’università – seppur non compiuti con un tagliacarte, ma non per questo meno efferati –  ne ho visti tanti.

È per questo motivo che mi son portato il libro a casa. Ho ubbidito a un impulso irrefrenabile della componente masochista del mio ego, ché di rivangare delitti ai quali ho assistito nell’università, sinceramente, ne dovrei fare a meno. Ma così van le cose.

Oltretutto, la sfrenata fantasia dell’autore – non la prenda come una critica – non è riuscita a superare la realtà, visto che nel rileggere le regole che governerebbero l’esercizio del potere accademico, secondo quanto racconta, ho rivisto, fedelmente, tutto quanto l’esperienza mi ha insegnato. Al più, ho rilevato qualche variante terminologica: il governo occulto del potere, che secondo la ricostruzione dell’autore sarebbe stato gestito da “cosche”, nella mia esperienza – secondo quanto dichiarato dagli stessi protagonisti – veniva invece deciso con “patti tra gentiluomini”, successivamente portati all’approvazione degli organismi accademici. Senza spazio per emendamenti, ovviamente.

Qualche difformità l’ho incontrata anche nelle coniugazioni,  visto che  -se non ho letto male – qualche volta colloca gli avvenimenti al tempo imperfetto. Eppure – nonostante, la rinuncia a una  frazione della pensione, pur di potermi giubilare prima del tempo stabilito – continuo a osservare, malgrè moi, il persistere di episodi di gestione spericolata del potere.

Bella, cruda, efficace – sembra vera –  è  la descrizione di un ambiente contradditorio. Quanto l’autore riferisce è proprio vero: nonostante discutibili pratiche del commercio di ingressi, progressioni di carriera e distribuzione delle risorse, all’interno dell’università si possono anche incontrare valenti studiosi, si possono stringere rapporti non soltanto di stima reciproca, ma anche di amicizia, e persino instaurare genuine storie d’amore.

A differenza del critico, sia chiaro, il semplice lettore – come nel mio caso – non è tenuto a formulare un giudizio secondo i canoni dell’arte, può anche limitarsi a un semplice “mi è piaciuto” o “non mi è piacito”, al più graduato da un avverbio di quantità, a volte speso per cortesia. Il lettore, quando trova sostanza, prende spunto dal  racconto per confrontarlo con il proprio vissuto. Spesso, come in questo caso, è soprattutto l’io narrante ad attirare l’attenzione. Un io narrante che, mentre nella finzione “interroga” gli indiziati, in realtà “si interroga”: non fa altro che interrogarsi.

E se le domande coincidono con esperienze o sensazioni del lettore stesso – se non di un’intera generazione – ecco che irrompe sulla scena il transfer: il lettore si impadronisce dei sentimenti che l’autore lascia filtrare. È questa la parte più interessante del gioco. Perché l’autore – fatte salve le confessioni esplicite – ricorre all’allusione e alla rappresentazione simbolica; tocca quindi al lettore indovinare quali siano gli indizi giusti.  Confrontare i propri sentimenti con quelli dell’autore è sempre un azzardo, ma risulta interessante quando il percorso del lettore e quello dell’autore trovano motivi di convergenza.

A questo punto, ovviamente, l’autore, viene escluso, rimane estraneo, anche se gli deve essere riconosciuto il merito – tutto suo – di aver gettato, con gesto esteticamente apprezzabile – la pietra nello stagno.

Una volta individuata la chiave di lettura, il lettore può andare per suo conto; ciascuno si interroga sulla propria storia, o sulla propria interpretazione di vicende storiche vissute in compagnia.

Per me – e sicuramene per altri possibili lettori –  le coincidenze non mancano: a partire dal big bang iniziale del 68, da un’esperienza lavorativa comune nell’università, dalla passione, se così vogliamo definirla, per la politica.

Già –  è questo il punto -, ci si trova ad interrogarsi sulla prossima scadenza, spesso in solitudine, poiché con diversi compagni di un tempo possiamo ormai nutrire soltanto eredità d’affetti.

L’idea è quella di chiudere i conti, magari anche a costo di dover riaprire capitoli temporaneamente sospesi. Allo stesso tempo chiedersi se ne valga la pena, o se in qualche caso non sia preferibile – come suggerisce l’autore – qualche cassetto non riaprilo affatto, lasciare che si estingua per naturale consunzione.

Senza contare che, mentre cerchiamo di chiudere il cerchio, ripiombiamo in drammatica emergenza di barricate: guardandoci intorno, dobbiamo prendere atto che le cose non sono andate proprio come avevamo previsto.

Mi torna alla mente, prepotente, il milite ignoto di Lino Patruno che, rivoltandosi all’interno del  sarcofago dov’è stato rinchiuso – che neppure è il suo – confessa: “non so se ho vinto o se ho perduto”.

Può anche darsi che mi sia perso per strada, che non sia questo  il sentiero immaginato da quell’io narrante che cerca di uscire indenne – senza certezza di successo – dal guazzabuglio che lo circonda, che ci circonda.

La causa occasionale: un amico che, qualche mese fa, a Milano, mi ha chiesto di Luciano e mi ha gravato dell’incarico di  fargli pervenire i suoi saluti.

In altra epoca, certamente, ho condiviso con l’io narrante innumerevoli manifestazioni, assemblee, letture, probabilmente anche la pazza idea che “non fosse che l’inizio”. Ma ho scoperto di non possedere neppure il suo numero di telefono, per mancanza di incontri ravvicinati.

Quel giorno, in libreria, mi è tornato alla mente l’impegno preso con Gian Primo Cella, e la convinzione che non si trattasse di un convenevole. Seppure in ritardo, intendo adempiere all’ambasciata, precisando che i saluti che mi ha incaricato di recapitare erano molto affettuosi.

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