Common foods
16 Novembre 2011Marcello Madau
Le questioni poste negli ultimi numeri da Piero Careddu, sino alla stimolante sistematizzazione politica del ‘Manifesto della cucina neo-tradizionale’, attengono ad una sfera ben più ampia di quanto comunemente si creda.
Sino ad inserirsi in quello che pensiamo, anche se non riusciamo a definirlo pienamente (ma la ricerca è in movimento, e avremo modo di parlarne), un modello di sviluppo diverso. Non solo rispettoso dell’ecosistema, ma basato sulle sue migliori e più sane risorse per costruire benessere.
Vi è come un condizionamento di scala quando, all’interno della cultura politica ancora prevalente a sinistra, si deve proporre uno sviluppo alternativo a quello dominante.
Generalmente alla grande scala privatistica se ne contrappone una pubblica basata su iniziative economiche di Stato. Che sarebbero le uniche in grado a muovere ‘in una volta’ investimenti, capitali ed occupazione cospicua.
In tale quadro, altre, pur apprezzate ma non così grandi iniziative virtuose (cultura, tradizioni varie, ambiente etc.), sono considerate e programmate più o meno come riempitivi.
Io credo che questo sia un errore dove pesi molto l’inadeguatezza culturale, l’incapacità di cogliere le possibilità di una solo apparente piccola scala. Forse vi è una subalternità concettuale alla grande produzione industriale, che, nel bene e nel male, si è profondamente modificato allontanandosi dai suoi ‘successi’, perdendo la sua spinta propulsiva.
Ed è significativo il fatto che un approccio di sistema come quello del Premio Nobel 2009 per l’Economia della prof. Elinor Ostrom (che ha dedicato molto nelle sue ricerche alle concrete possibilità di reti economiche efficaci costruite sull’autogoverno ed i beni comuni) appaia – a prescindere dal grado di condivisione del suo pensiero – lontano anni luce dalle concezioni prevalenti della nostra piccola provincia politico-progettuale.
Uno dei campi di sviluppo virtuoso apparentemente piccolo è, per l’appunto, quello dell’alimentazione tipica e tradizionale declinata in percorsi qualitativi e di correttezza ambientale.
In realtà le buone pratiche alimentari, e soprattutto, a monte, delle produzioni alimentari, possono contribuire alla costruzione di una proposta alternativa anche per l’economia.
Se però vogliamo uscire dalla logica ‘minoritaria’ nella quale teorici e politici conservatori confinano tale tema, è necessario inquadrarlo all’interno del percorso ‘beni comuni’, delle sue proprietà ambientali, delle sue capacità di generalizzazione.
Iniziamo dai suoi rapporti con il paesaggio. L’alimentazione – è fortemente opportuna la decisa connotazione ambientalista proposta da Careddu – è strettamente legata ad esso, è uno dei suoi segnali più intimi, perché la maniera con la quale l’uomo caratterizza approvvigionamento e creazione del cibo ne condiziona le forme e le dinamiche sin dalle esperienze più antiche.
Si dice che il paesaggio non sia rappresentato nelle forme ‘artistiche’ più lontane, quanto meno quelle preistoriche. Ciò non è esatto, perché, non solo a livello simbolico, esso è presente attraverso le immagini del cibo, con i bisonti delle pitture paleolitiche che lo sono e rimandano a precisi contesti ambientali, con le impressioni sulle superfici dei vasi mediante i bordi delle conchiglie, con le statuette femminili di forte metafora naturalistica.
Sino allo straordinario mare aperto, rosso, solcato dalla nave di Dioniso, nella coppa realizzata da Exekias nel 530 a.C. che ha come albero una vite. Ben prima di essa altri egei, ad Akrotiri, indicavano i campi dello zafferano con le loro raccoglitrici. Circa 3000 anni dopo, negli “Effetti del buongoverno in città e campagna” di Ambrogio Lorenzetti, ecco le forme senesi del paesaggio ben coltivato. Questioni colte cinquant’anni fa da Emilio Sereni nella sua “Storia del paesaggio agrario”.
Ma oggi, con il paesaggio che comincia ad essere considerato, anche nell’accezione ampia di territorio, un bene comune, acquista un valore dirompente e polisemico la biodiversità, segnale di una specificità paesaggistica che si legge, in modo evidente, proprio nei prodotti naturali legati ai cibi e nelle loro specifiche espressioni territoriali. Maglia di resistenza al degrado, miracoloso e assai significativo ossimoro: una diversità nel contempo precisa indicazione di identità.
La biodiversità ci propone alti livelli qualitativi, sia nel gusto che nella qualità ambientale.
In questa relazione cibo-paesaggio, cibo-biodiversità, cibo-identità, che potremmo definire una e trina, si inserisce il valore lavoro: un nucleo possibile di soggetti attivi, veri e propri guardiani, può formarsi nei lavoratori del settore. Parafrasando un meccanismo di azione politica e liberazione sociale già noto, possono aver un ruolo decisivo, costituendo, entro scelte condivise, una fascia avanzata della comunità al servizio del territorio e del paesaggio culturale come bene comune.
Una risorsa economica per uno sviluppo diverso? Il fatto interessante è che l’offerta di alimenti e bevande di alta qualità, rigorosamente rispettose dell’ambiente e della biodiversità, rappresenta un settore in evoluzione, molto rappresentativo. E’ al primo posto, secondo studi avanzati sul cosiddetto ‘turismo rurale’, nel desiderio di tempo libero in Sardegna.
Per essere potenziata e diventare sistemica questa risorsa non può sfuggire a due aspetti: il primo, con il quale abbiamo molte carte da giocare e molti margini di miglioramento, è quello della qualità. Ai profili, ampiamente indicati dalle ‘piantagioni dell’Utopia”, vorrei aggiungere quello – controverso – legato al rapporto fra biodiversità e organismi geneticamente modificati.
L’inganno alimentare degli OGM, nonostante fiancheggiatori persino insospettabili, è stato autorevolmente confutato da autorevoli genetisti – si veda la nostra intervista a Marcello Buiatti – e studiosi di alimentazione (alcuni, cosa ancora più importante, economisti ex-quadri del WTO come Raj Patel, di cui ricordiamo “I padroni del cibo”, pubblicato da Feltrinelli).
A caccia di brevetti privati, sono veri assassini della biodiversità, più ancora che per eventuali danni diretti come prodotti alimentari, per l’aggressività dei loro pollini verso le specie vicine e per il cambiamento imprevedibile nel ciclo degli esseri viventi collegato, a partire da insetti e uccelli. E’ in corso proprio in queste settimane un tentativo assai pericolo ad opera delle multinazionali chimiche ed alimentari (BASF, Monsanto, Bayer etc.), che mirano a brevettare i prodotti naturali primari attraverso l’imposizione dei loro prodotti modificati: pomodoro, patata e altri che si annunciano.
Il secondo aspetto è quello della scala: i piccoli distretti della qualità alimentare devono nascere/rinascere – dal basso -, ed unirsi in reti organiche, con disciplinari qualitativi di gusto e ambientali irreprensibili. Tali reti non sono ‘soltanto’ quelle dei produttori, ma anche quelle dei mercati dell’offerta locale e dei locali direttamente di consumo, attraverso l’icona, che qualcuno meritoriamente sta proponendo nella nostra isola, della produzione (che sia sana e buona, naturalmente) e del consumo a chilometro zero.
Una battaglia per i beni comuni, investiti a più livelli: il cibo, il territorio, il paesaggio. Si pone il problema di considerare il territorio sia come risorsa produttiva che come mezzo di produzione. Di controllare quest’ultimo e di configurare in maniera ‘sostenibile’ la prima.
In questo caso – e qua è ovviamente necessaria l’azione politica, di incoraggiamento, unificazione e offerta – la Sardegna ha possibilità di unire la tutela dell’ambiente e della biodiversità ad una consistente produzione di ricchezza. Di costruire un esercizio della democrazia e della tutela del territorio ‘dal basso’, partendo, per l’appunto dalle piccole comunità e unificandone le reti dei beni comuni.
Si apre un discorso stimolante, una prospettiva politica ed economica che può unire lavoro, ambiente, autogoverno e produzione di ricchezza, sul quale torneremo volentieri.