Effetto Catalogna, info-Stati e neoliberismo

17 Dicembre 2017
[Gianfranco Sabattini]

Carlo Galli, noto politologo, in un articolo pubblicano sul n. 41 de “L’Espresso” (“Lo Stato è morto. Viva lo Stato”) afferma che ai poteri costituiti “non piacciono le avventure anti-statali, almeno quelle che turbano lo status quo senza che qualcuno di loro ne tragga vantaggio”. Se Galli fosse nel giusto – e ahi noi lo è – le genti che vivono all’interno del cosiddetto Stato di diritto, nella presunzione d’essere depositarie della fonte primaria della volontà collettiva, dovranno convincersi che la sicurezza riposta nel contenitore istituzionale espresso dallo Stato-nazione è esposta al pericolo che “nemici” interni ed esterni trovino conveniente la sua disgregazione.

Giustamente, Galli ricorda che lo Stato, anche quello di diritto, è una costruzione storica. Per quanto ad esso si possa essere “affezionati”, ritenendolo un presidio inscalfibile della nostra libertà nella sicurezza, non si può pretenderne l’”immortalità”; ciò, perché – afferma il politologo – lo Stato è “una costruzione della fantasia istituzionale dell’Occidente, dopo la Città e l’Impero; e proprio contro le repubbliche cittadine e gli imperi tradizionali [lo Stato] si afferma in Europa, con i suoi attributi essenziali – sovranità, popolazione, territorio -, in un arco di tempo che varia dal XVI al XIX secolo”. Se poi si dovesse considerare l’espressione ultima dell’evoluzione dello Stato di diritto liberale in Stato di diritto democratico, che ha assunto la sua forma più compiuta nell’arco di tempo dei “Gloriosi Trenta Anni (1045-1975)”, il secolo ultimo entro il quale si compie l’intera evoluzione dello Stato sarebbe il XX.

All’origine – ricorda Galli – vi è stata l’”esigenza di portare la pace nel nostro continente, devastato dalle guerre di religione che hanno seguito le riforme protestanti”; obiettivo, questo, raggiunto con la Pace di Westfalia, che ha posto fine all’interminabile guerra dei trent’anni (1618-1648), a seguito della quale le popolazioni europee hanno potuto godere di una vita relativamente tranquilla all’interno dei propri “gusci” istituzionali protettivi. A questo scopo, lo Stato è diventato il monopolista dell’uso della forza, da usare contro ogni sorta di nemici, sia interni che esterni.

Tuttavia, pur assurgendo a protagonista della propria stabilità a difesa degli interessi della propria popolazione, lo Stato non è riuscito a sottrarsi agli “scuotimenti” interni che lo hanno agitato e indebolito, senza però distruggerlo, con protagonisti portatori principalmente di forme politiche organizzative innovative. Grazie all’azione di tali gruppi di innovatori, lo Stato è diventato il centro che ha reso possibile la “capitalizzazione” dei risultati positivi del progresso culturale e scientifico che in esso è stato possibile realizzare; tali risultati, tradottisi in una continua modernizzazione delle forme organizzative della riproduzione della vita materiale, hanno consentito allo stesso Stato, di esibire con la modernità – afferma Galli – il proprio talento creativo e, “con la sua coerenza organizzativa” di diventare il fattore propulsivo “della crescita del mercato, prima interno e ben presto mondiale”. Crescita, quest’ultima, che sarà “una delle cause della moderna superiorità materiale europea sul resto del mondo”.

Lo Stato, tuttavia, non è solo un presidio della sicurezza del proprio popolo e del continuo miglioramento della sue condizioni di vita; per Galli, esso è anche “una produzione di senso, uno strumento di identificazione collettiva, in una storia, in una lealtà comune”, ovvero in “un collettivo riconoscimento di legittimità”. In ciò si sono riconosciuti, come un’unica comunità di destino, i vari gruppi sociali che, pur diversi sul piano etnico, religioso e politico, si sono fusi nella nazione, la cui dinamica interna ha promosso un continuo cambiamento, a volte violento, delle istituzioni, per fondarle su una crescente “legittimità del popolo, sulla democrazia e sulla rappresentanza”.

E’ questa, in fondo, la logica evolutiva dello Stato moderno nelle età delle grandi rivoluzioni; a iniziare dalle rivoluzioni “borghesi” (inglese, americana e francese), le quali, pur non avendo dato luogo alla formazione di Stati non ancora completamente democratici nel senso contemporaneo, sono servite ad aprirli, attraverso ulteriori rivoluzioni, ad altri cambiamenti, culminati nell’ultima grande rivoluzione “proletaria” del 1917, che sul piano valoriale è valsa ad affermare, almeno in Occidente, l’avvento dello Stato democratico di diritto, fondato sull’istituzionalizzazione del principio dell’equità nella distribuzione del prodotto sociale.

Pur potendo sembrare una contraddizione, il processo evolutivo delle istituzioni statuali determinato dalle rivoluzioni, anziché sovvertire e superare l’originario “prodotto della fantasia istituzionale dell’Occidente, lo ha invece rafforzato, aumentando la libertà nella sicurezza di tutti coloro che hanno concorso ad attivare il processo evolutivo, nonché a supportarlo.

In tal modo – sottolinea Galli – lo Stato, superati i limiti della Città-Stato e dell’Impero, dopo essere divenuto nazionale e democratico è divenuto anche Stato sociale; così, lo Stato keynesiano, realizzato nel corso dei “Trenta Gloriosi Anni”, pur in presenza di molti limiti organizzativi che ancora permangono, si è tradotto nella rappresentazione di un’organizzazione politico-istituzionle che è stata, sino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, un’”invenzione di pace, di inclusione, di controllo democratico delle tensioni e delle contraddizioni sociali”; contraddizioni, queste, che costituiranno le premesse dello sconquasso cui andrà incontro lo Stato democratico moderno verso la fine del secolo scorso.

Tuttavia, mentre le rivoluzioni borghesi e “proletarie” non sono state in grado di sovvertire le forme statuali tradizionali ereditate, vi sta riuscendo un tarlo interiore, espresso dal capitalismo; quest’ultimo, nella sua coniugazione neoliberista, pur continuando ad essere potente fattore di mobilitazione delle risorse produttive disponibili, sul finire del XX secolo “ha rifatto il mondo”, determinando, con la globalizzazione, l’affievolimento del ruolo degli Stati più tradizionali, dopo averli contestati “in nome dell’efficienza, del merito, della disuguaglianza creatrice”. Esso, il capitalismi neoliberista, ha quindi screditato la politica, assegnando all’economia il ruolo di variabile strategica fine a sé stessa, estranea perciò al perseguimento di un qualsiasi obiettivo che non fosse compatibile con l’ottimizzazione dei parametri economici.

L’affievolimento del ruolo dello Stato democratico di diritto è stato determinato dall’assunto che la democrazia e i diritti acquisti con lo Stato keynesiano fossero di ostacolo al funzionamento del libero mercato, al quale è stata ricondotta la funzione di determinare tutti i più importanti aspetti della società (come, ad esempio, quelli concernenti la distribuzione del reddito e della ricchezza). A tal fine, è stata respinta qualsiasi interferenza esogena riguardo al funzionamento del mercato; inoltre, l’imprenditorialità è stata assunta come elemento centrale della società, nel senso che è stata affermata l’idea che senza gli imprenditori non potesse esistere il mercato. Secondo l’ideologia neoliberista del capitalismo attuale, per rimediare all’affievolimento del ruolo dello Stato, s’imponeva la necessità che agli imprenditori fosse riconosciuto uno status sociale privilegiato, in considerazione del fatto che la società senza una “casta imprenditoriale” sarebbe stata condannate alla povertà. La conseguenza di ciò è stato l’ulteriore assunto che l’economia dovesse essere governata da gruppi professionali o da un qualche gruppo privilegiato di individui, come i tecnocrati.

Infine, il capitalismo neoliberista ha imposto l’idea che il mercato dovesse essere pervasivo riguardo ad ogni aspetto dell’esistenza, in modo che la vita sociale potesse essere interpretata secondo metafore economiche. Nelle loro relazioni, i singoli componenti ogni gruppo sociale devono comportarsi nello stesso modo in cui si comportano le imprese in concorrenza tra loro; così, il capitalismo neoliberista vale ad affermare il principio secondo il quale gli esseri umani esistono solo per il mercato; in conseguenza di ciò, la visione della vita della quale è portatore il capitalismo neoliberista è che ogni essere umano deve essere un imprenditore di se stesso, agendo in quanto tale nel soddisfare i propri stati di bisogno.

Ma non basta, di fronte alla resistenza opposta da ciò che ancora sopravvive del vecchio stato keynesiano, il capitalismo neoliberista ha sferrato un altro attacco, cercando di realizzare una “nuova dislocazione” del ruolo e della funzione del vecchio Stato; si tratta di una dislocazione “su altra scala: più piccola, etnica o municipale”, solitamente sorretta dal consenso delle popolazioni delle regioni più ricche dei singoli Stati, le quali, non volendo più sottostare agli obblighi solidaristici del vivere insieme, intendono sottrarsi all’onere della ridistribuzione del prodotto sociale e della ricchezza accumulata, a sostegno delle regioni meno dotate sul piano economico.

Perciò, nella dimensione dell’info-Stato, così come è teorizzato dall’ultimo corifeo dell’ideologia neoliberista, il politologo indiano Parag Khanna, considerato una figura di spicco del think tank dell’”European Council on Foreign Relations”, la piccola patria è considerata come l’ultimo stadio della rimozione di ciò che residua del vecchio Stato tradizionale.

Khanna ha pubblicato di recente “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”, nel quale sostiene che la democrazia, il regime politico proprio dello Stato keynesiano, può sottrarsi all’irreversibile declino che la sta affliggendo, solo se le sue istituzioni riusciranno a migliorare le loro performance, assegnando il governo delle comunità a squadre di tecnocrati.

Non solo; Khanna auspica anche un riduzione delle dimensioni prevalenti dei vecchi Stati, in quanto la ricerca della dimensione ideale dello Stato più adatta ai tempi non è un astratto esercizio filosofico, ma una necessità ricorrente; ciò, perché la dimensione tradizionale degli Stati non sarebbe più strumento idoneo a consentire ai governi di risolvere i problemi complessi del mondo attuale. Nel corso degli ultimi decenni, a parere di Khanna, gli studiosi dei problemi politico-istituzionali hanno individuato nell’info-Stato, nella forma della città-Stato, le fondamenta per la soluzione di tutte le “sfide” che preoccupano le popolazioni del XXI secolo. Poiché il piccolo Stato non è esente da costi, Khanna ritiene che alla sua conduzione si addica meglio la tecnocrazia piuttosto che la democrazia, in considerazione del fatto che quest’ultima non insegnerebbe le virtù del risparmio necessario per provvedere a fornire i servizi nella quantità e nella qualità attese dai cittadini.

Ovviamente, resta da vedere, a parere di Galli, se la frantumazione di vecchi Stati “sia fattore di stabilizzazione o accresca l’instabilità. Se cioè, i piccolo Stati, […] finiranno per essere gusci di noce nelle turbolenze economiche e politiche mondiali o piuttosto nocciolo duri di un’esistenza più democratica ed equilibrata”. Forse, conclude con qualche dubbio Galli, il futuro politico delle genti è in qualche forma di federazione; ma il presente è ancora di ciò che resta del vecchio Stato. Questo, nonostante venga compromesso dal capitalismo neoliberista globalizzato, risulta ancora tanto “indispensabile che quando quello vecchio appare non più funzionante non si riesce a pensare che a farne uno nuovo”.

Sarebbe opportuno che nel nostro Paese, ad esempio, la classe politica e gli establishment dominanti si decidessero ad affrontare il problema della riorganizzazione del vecchio Stato regionalista in un nuovo Stato autenticamente federalista; ciò, al fine di evitare che le istanze autonomiste che si stanno diffondendo e radicando in molte regioni italiane abbiano come sbocco finale e ultimo la “balcanizzazione” del Paese e lo smarrimento, con il costituirsi di tante “piccole patrie, della sua identità come nazione democratica multietnica e multiculturale.

 

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