I sette fratelli Cervi
4 Giugno 2025[Claudio Natoli]
Nell’ambito della storia della Resistenza italiana, la vicenda dei sette fratelli Cervi è particolarmente ricca di significati.
La famiglia Cervi, composta dal padre Alcide e dalla madre Genoveffa, e da ben dieci figli, sette maschi e tre femmine, era una tipica famiglia contadina della provincia di Reggio Emilia, un territorio caratterizzato da una grande tradizione di lotte per l’emancipazione dei lavoratori della terra, che si erano svolte nei primi due decenni del ‘900 sotto il segno del “socialismo evangelico” di Camillo Prampolini e della Federterra e che avevano sollevato dall’abbrutimento e dalla miseria le masse rurali, coinvolgendo, oltre ai braccianti, anche gli affittuari e i mezzadri.
Il fascismo aveva distrutto con la violenza e l’incendio questo movimento di emancipazione, aveva sciolto i comuni socialisti, le leghe e le camere del lavoro, e aveva riportato il mondo contadino nelle precedenti condizioni di soggezione agli agrari e ai ceti proprietari. I Cervi non erano all’origine socialisti, bensì di radici cattoliche, sebbene il padre Alcide professasse un “cristianesimo umanistico” fortemente improntato al riscatto degli umili, piuttosto che all’osservanza dei riti e all’obbedienza alle gerarchie.
Inoltre i Cervi, nei criteri di coltivazione dei fondi, in qualità di mezzadri e poi di affittuari, dapprima a Campegine e poi nel contiguo comune di Gattatico, espressero una spinta costante all’elevazione materiale e culturale che si tradusse nell’introduzione di tecniche agricole di avanguardia, nell’aggiornamento professionale e nella specializzazione delle colture, a cui si accompagnò l’interesse per la lettra e l’acculturazione individuale.
Cosicché nella libreria di casa della famiglia Cervi, accanto a opere di tecnica agraria, si trovavano anche classici della letteratura, non solo Dante, D’Azeglio e De Sanctis, ma anche Dostojevski, Zola, London e Gorki: questi ultimi tre autori, in virtù dei contenuti di critica sociale che pervadevano le loro opere, circolavano nell’antifascismo clandestino come tramiti di acculturazione politica. Tutto ciò contrastava sia con gli indirizzi autarchici della politica agraria, sia con la retorica ufficiale e gli intrattenimenti dopolavoristici che il regime riservava alle classi popolari, insieme con il testo unico di Stato per le scuole elementari.
I primi segni di un passaggio all’antifascismo dei Cervi risalgono alla metà degli anni ’30, soprattutto per iniziativa dei figli maggiori Aldo e Gelindo. La guerra d’Etiopia fu rifiutata per il suo contenuto nazionalistico e di sopraffazione imperialista, insieme all’orientamento benedicente della Chiesa, e così anche l’arruolamento militare, a cui i giovani Cervi cercarono con molteplici espedienti di sottrarsi. Nel frattempo Aldo, divenuto bibliotecario volontario nel Comune di Campegine, faceva circolare nascostamente alcuni testi proibiti dei classici del marxismo.
In seguito nel 1940 si avviarono contatti diretti con il Partito comunista attraverso la compagnia teatrale itinerante della famiglia Sarsi, che diffondeva nelle sue rappresentazioni messaggi antifascisti. In particolare la giovane Maria Sarsi era già militante attiva nella rete comunista clandestina e coinvolse Aldo nella diffusione di manifestini ciclostilati e di notizie sull’andamento reale della guerra. Ma soprattutto la famiglia Cervi si impegnò nel sostegno all’insubordinazione alle autorità e alla sottrazione da parte dei contadini di grano e di prodotti agricoli agli ammassi obbligatori, che assunse nel reggiano vaste dimensioni ben prima del 25 luglio 1943.
Inoltre i Cervi si attivarono nel sostegno materiale ai detenuti politici e alle loro famiglie, attraverso il Soccorso rosso, cosicché cominciarono ad andare incontro ai primi arresti, mentre Aldo dovette entrare in clandestinità. E’ molto significativo che già il 26 luglio 1943 la famiglia Cervi desse vita a una pubblica “pastasciutta antifascista” per festeggiare l’arresto di Mussolini, e che subito dopo l’8 settembre la loro cascina divenisse un centro di soccorso dei disertori, degli sbandati e dei prigionieri alleati fuggiti dai campi di internamento di ogni nazionalità (inglesi, americani, sudafricani, jugoslavi e anche sovietici).
Di più: fu Aldo, contro gli inviti alla cautela che venivano dalla federazione del PCI di Reggio Emilia, a sostenere la necessità dell’immediato avvio della Resistenza armata organizzando una prima banda nell’Appennino reggiano composta anche da sette militari alleati e da tre partigiani italiani. Il gruppo procedette a un primo disarmo di un presidio di carabinieri e prese contatto con don Pasquino Borghi, parroco di Tapignola, che già svolgeva opera di assistenza a renitenti e a partigiani, e che per questo sarebbe stato arrestato e fucilato nel gennaio 1944.
Trasferitosi in pianura, il gruppo procedette ad altre azioni di resistenza, mentre la famiglia continuava ad accogliere ex prigionieri e renitenti alla leva di Salò. All’alba del 25 novembre la cascina dei Cervi, probabilmente a seguito di una delazione, fu circondata dai militi repubblichini i quali, dopo un conflitto a fuoco, trassero in arresto papà Cervi i sette fratelli e altri partigiani, trasferendoli alle carceri di Reggio, dove rimasero rinchiusi per un mese. Un tentativo di organizzarne la fuga non ebbe seguito. Ma, nel frattempo, i vertici di Salò deliberavano l’istituzione di tribunali politici straordinari composti da fascisti militanti al fine di restaurare la propria autorità attraverso la fucilazione di ostaggi e di avversari politici e l’uso illimitato del terrore.
A seguito dell’uccisione da parte dei gappisti reggiani di un ufficiale della Milizia, i sette fratelli Cervi furono così fucilati senza processo nel Poligono di tiro di Reggio Emilia e seppelliti segretamente in una fossa comune del locale cimitero. Il padre Alcide, scampato all’esecuzione per la sua età avanzata, riuscì ad evadere dal carcere a distanza di una settimana a seguito di un bombardamento entrando in clandestinità, mentre la madre Genoveffa morì di stenti e di crepacuore all’inizio del 1945.
E proprio a papà Cervi e alla sua straordinaria forza d’animo, dignità e apertura umana, spetterà l’immenso onere di assicurare, con il concorso femminile determinante delle vedove, delle figlie e dei nipoti, la continuità della famiglia e dell’azienda, e insieme di trasmettere il patrimonio di valori di umanità, di libertà e di giustizia che con la partecipazione all’antifascismo e alla Resistenza e il sacrificio dei sette fratelli i Cervi avevano consegnato alla costruzione della democrazia nell’Italia repubblicana. Si raccomanda, a questo proposito, la lettura del libro-memoria di Alcide Cervi, I miei sette figli, scritto insieme a Renato Niccolai (Editori Riuniti, 1961) e di quello recentissimo Fratelli Cervi. La storia e la memoria, di Toni Rovatti, Alessando Santagata, Giorgio vecchio (Viella, 1924).
In questo senso la famiglia Cervi costituì un simbolo della vasta partecipazione del mondo contadino emiliano nella Resistenza, i cui i valori di solidarietà e di giustizia saranno alla base della costruzione della democrazia repubblicana nell’Emilia rossa.
Non mi è possibile qui ripercorrere le varie e non sempre facili fasi del riconoscimento da parte delle istituzioni del contributo della famiglia Cervi nella storia della Resistenza e nella storia d’Italia, sino alla creazione di un Museo, di un prestigioso Centro studi e di mirabile un “luogo della memoria”, che è stato ormai frequentato da centinaia di migliaia di persone. E’ invece opportuno soffermarsi brevemente sul film I sette fratelli Cervi. Il film è uscito nel 1968 dopo una lunga gestazione ed è stato frutto della collaborazione tra lo studioso di cinema Gianni Puccini, già attivo nella Resistenza romana, e Cesare Zavattini, scrittore, sceneggiatore, saggista, che era originario di Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, e che è stato nell’immediato dopoguerra uno dei padri del “neorealismo” e ha dato il suo contributo ai più bei film di Vittorio De Sica, da Ladri di biciclette al Giardino dei Finzi Contini, e più in generale a quelli di Visconti e dei più grandi registi italiani.
Il film usciva nel clima di sopravvenuto “sdoganamento” della Resistenza da parte delle istituzioni e del sistema informativo-mediatico, intervenuto dopo la fine della fase più acuta della “guerra fredda”, ma anche delle spinte al rinnovamento della società italiana legate ai movimenti sociali del ’68. Di qui l’intento degli autori di andare oltre una visione celebrativa e unanimistica della Resistenza, per rievocare la storia di uomini e donne “in carne ossa” e non quella mitica di figure eroiche consapevolmente votate al martirio.
C’era anche l’intento di attualizzare la lezione della Resistenza richiamandosi alle lotte antimperialistiche e di liberazione nazionale in Vietnam e in America latina (il prete Pietro Borghi con il fucile in spalla è una chiara allusione al prete guerrigliero Camillo Torres), ma vi era anche la valorizzazione di canoni non conformisti nei rapporti di genere, peraltro ben presenti nella famiglia Cervi, in una sorta di anticipazione di motivi di segno femminista. Nel complesso, si può dire che il contesto storico e i tratti di autonomia e di giovanile attivismo alla base delle scelte dei fratelli Cervi, anche in autonomia dalle direttive del PCI, erano ben delineati nel film, anche se la reclusione nel carcere militare di Gaeta di Aldo assomiglia troppo nel film a una trasposizione di fiction della realtà dei collettivi politici comunisti nel carcere di Civitavecchia.
E’ opportuno concludere, anche a costo di spostarsi su un piano diverso, condividendo una riflessione di Piero Calamandrei che risale ai primi anni ’50, e cioè al periodo di congelamento della Costituzione, dell’ostracismo alla Resistenza e dei processi ai partigiani intentati dai governi centristi nel clima più cupo della “guerra fredda”, ma che a me sembra possa essere di qualche utilità per una riflessione anche per l’oggi:
«La storia della famiglia Cervi, meglio di ogni altra, –scriveva Calamandrei- riassume in sé gli aspetti più umani, più naturali e più semplici della Resistenza, e insieme i suoi aspetti più puri e spirituali […]: questa famiglia patriarcale di agricoltori emiliani, composta dal padre contadino e di sette figli contadini, la quale, subito dopo l’armistizio, nell’ora delle generali perplessità, si trova tutta unita e concorde fino dal primo giorno, senza un attimo di esitazione, dalla parte della libertà e della riscossa.
Gli assassini hanno potuto trucidare i sette fratelli, ma la famiglia non sono riusciti a distruggerla: il ceppo era di razza solida, le radici erano ben fonde nella terra; la famiglia è stata più forte di loro. […] Forse c’è qualcuno che preferirebbe lasciar da parte queste rievocazioni, qualcuno al quale le ombre dei sette fratelli Cervi fanno paura. Ma non ombre, -stelle come le simboleggia la medaglia: c’è gente a cui queste stelle fanno paura; perché sono stelle che segnano, in cielo, le vie dell’avvenire. Preferirebbero non sentirne più parlare: Dicono: “Non rievochiamo gli orrori della guerra civile: gli uni valevano gli altri: la storia tutto spiega, tutto livella. Pacificazione, perdono, oblio: non parliamone più”.
Respingiamo questi ipocriti predicatori di insidiosa indulgenza. Il perdono non si nega ai pentiti; ma occorre il pentimento, l’umiltà del pentimento. Quando gli autori di quelle catastrofi non solo tornano indisturbati in libertà, ma invece di starsene in disparte cauti e discreti osano riprendere l’antica tracotanza per gettar fango sulla guerra partigiana, allora noi abbiamo il dovere di rievocare qui i nostri morti, e di rinnovare qui, dopo dieci anni, il giuramento di non tradirli.
E’ vero che la storia insegna come il progresso umano si svolga attraverso continui urti di forze contrapposte, e spiega quali furono in quella dialettica i movimenti degli uni e degli altri. Ma non rinuncia a giudicare da che parte furono i valori umani e sociali, e da che parte furono gli istinti bestiali della cieca barbarie. La storia è fatta di una serie continua di scelte: anche l’Italia, dieci anni fa, fece una scelta. Tra la libertà e la servitù, tra il privilegio e la giustizia, tra l’umanità e la ferocia, il popolo italiano fece la sua scelta: e questa si chiamò Resistenza. Questa è ancora la nostra scelta, questa sarà la scelta del nostro avvenire» (“Rinascita”, n.1, gennaio 1954, pp. 28-31, ripubblicato in Id., Uomini e città della Resistenza, Laterza, 1955).
Questo passo a me pare ci ricordi che la conquista della democrazia, delle libertà e dei diritti, non è mai un dato acquisito una volta per sempre, e oggi, in concomitanza con questo 25 aprile, appare forse anche più attuale di ieri.
Intervento alla presentazione del film I sette fratelli Cervi, promossa dalla Società umanitaria Cineteca sarda e della Fondazione Enrico Berlinguer, Cagliari, Galleria dello Sperone del Bastione di Saint-Remy, 23 aprile 2025.