Il romanzo Garabombo

1 Novembre 2010

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Natalino Piras

Toccare l’invisibilità è una cosa dolorosa.
L’invisibilità è una malattia, anche della letteratura. Non permette di vedere né di sentire. Crea una categoria alta, la letteratura e il successo diffusi dai media forti (nazionali, tradizionali, Corsera e Rai-Mediaset) che sprezza e nasconde una letteratura bassa, non visibile seppur produttrice di senso. Lo facessero altrove e andrebbe bene. Il fatto è che anche qui ci pervade. Rende invisibile il visibile. E tutti a dar ragione magari a Umberto Eco ma pure agli editori e agli editors, anche delle più piccole provinciali case editrici che questo sistema perpetuano: se non sei dentro un determinato sistema non vali. Appunto l’invisibilità. Leggetevi a tal proposito Storia di Garabombo, l’Invisibile (1972, prima edizione italiana nei “Narratori Feltrinelli”, maggio 1973, prima edizione nella “Universale economica”, sempre Feltrinelli, maggio 1977, quella cui qui si fa qui riferimento, magistrale traduzione dallo spagnolo di Enrico Cicogna).
Historia de Garabombo, el Invisible, è il secondo dei cinque romanzi del cantare andino, la Pentalogia, che comprende Rulli di tamburo per Rancas, Il cavaliere insonne, Cantare di Agapito Robles e La vampata. Uno meglio dell’altro nella narrazione della Resistenza nei primi anni Sessanta degli indios contro i latifondisti e contro la multinazionale Cerro de Pasco Corporation. Ne è autore il grande scrittore peruviano Manuel Scorza, nato a Lima nel 1929 e morto in un incidente aereo a Madrid nel 1983. Perché Garabombo? Perché se si sono seguiti i due nostri precedenti passaggi di “Inventare il romanzo” e “Contestare il romanzo” qui c’è una ripresa di discorso. Garabombo, l’eroe eponimo del romanzo di Scorza, è una delle coscienze della lotta dei comuneros pure essendo Garabombo alias Fermin Espinoza uomo di molte contraddizioni, anche amorose. Ma è soprattutto malato di invisibilità, specie agli occhi del Potere: i fazenderos, i politici del distretto di Cerro de Pasco, nelle Ande, e della capitale, Lima. È invisibile ai soldati della guardia civil che reprimono nel sangue le rivolte. Quando l’epidemia tocca l’acme, la paura come sostanza, diventa invisibile anche agli stessi comuneros. Non lo vedono, non lo vogliono vedere. Perché riconoscergli visibilità significa misurarsi, uscire da quella tradizione che fortifica il potere immutabile, anche della parola, che è dei padroni che appunto comandano, dominano, opprimono e reprimono. Senza che il silenzio e la sottomissione possano e debbano essere intaccati.
Ci sono nel romanzo trasformazioni. Come quella del gobbo e storpio Niño Remigio, mala lingua e autore di scorticanti lettere a metà tra anonime e mascherate da diversi nomi. Mettono tutti alla gogna. Per fisicità, al lettore di Garabombo viene in mente il gobbo in motocicletta del film Il commissario Pepe ambientato nel profondo sud di una ipocrita provincia veneta. Quando il Niño Remigio si trasforma in Remigio il Bello, potenza delle arti del potere, allora è funzionale agli artefici delle repressioni e delle stragi. Ma il Garabombo scorziano è pure importante perché nelle sue 276 pagine è capace di istituire tutto un discorso sulle digressioni del romanzo, ne parlavamo in “Inventare” e “Contestare”, e perché, in un gioco ancora di trasversalità e di cerchi concentrici diventa punto nodale della letteratura: come organizzazione della scrittura e della lettura, di interpretazione, di invenzione di linguaggi, di comparazione. Il locale (qui l’epopea dei Comuneros) si fa globale. Molto dice anche di sarditudine pur non essendo mai Scorza stato in Sardegna. A viale Bolognesi di Chinche (pagine 37, 63, 130, 137) ci sono la sottoprefettura e la caserma del sergente Astocuri che ricordano tanti nostri edifici e i loro abitatori. Quando Astocuri, sbirro ciclotimico ma comunque sempre funzionale al Potere, è di cattivo umore non può prendersela con Garabombo, perché invisibile, ecco che ha come bersagli facili il Niño Remigio, Brazo de Santo e l’Opa, idiota, Leandro.
Già il Potere. L’Occhio del sicario che cambia posizione – c’è molto di struttura immaginifica e visionaria nel romanzo – ricorda quello del “Signore degli anelli”. C’è in Garabombo la tecnica delle lettere riprese e interrotte, sempre del Niño Remigio, che ricorda sia quella che Totò detta a Peppino per la malafemmina. Sia i diari a riprendere in A l’Alfabetista di cui ci siamo occupati in “Contestare”. Appunto le digressioni. Un lessico che fa scuola: “la candela palpebrava”(61), “il palpebrare dei ceri” (94). Il Niño Remigio è insieme Sancho Panza e don Cisciotte, così come l’avvocato Basurto cui si rivolgono i comuneros (72-76) è una contestazione di Azzeccagarbugli manzoniano per poi ritrasformarsi, dopo convincenti visite di gente del Potere, in manzoniano Azzeccagarbugli. C’è pregnanza di metafore in Garabombo: “Una saliva rabbiosa” (86), “quell’allattato da serpente” ((7). Vasta l’umanità. I comuneros e le loro donne. Personaggi come Remigio, Brazo de Santo e l’Opa Leandro ci sono nei nostri contos e nel “Cunto de li cunti”. Sono Bertoldo, Gargantua e Pantagruel, Menocchio che l’Inquisizione bruciò per formaggio e vermi, tutti i tipi classici del paese della fame o di Mastru Juanne che dir si voglia. Finissimo Scorza nel tratteggiare tipi femminili come la maestrina Ginelda Balrin (110) la cui avvenenza è causa di tumulto per tutti, autorità e indios, Niño compreso, e Macha Albornoz, autentica femme-fatal, india okri-gàtina, causa di dissidio e guerra tra lo stesso Garabombo e il personero Corasma. I due ” si elettrocutarono” (119), dice Scorza. Garabombo è romanzo di considerazioni: “…La folla che respinge il differente che con la sua sola resistenza mette in dubbio la tradizione…” (128).
Un passaggio significativo dell’invenzione linguistica: “Il buio calò a inciampiconi, come un ladro inesperto. I notabili si dispersero. Il vento della notte si amareggiò (129. Ci sono “le mani terzanate” (131) di colore della febbre, un “ghriribizzare” (133), “occhiaiute” (136), “…le guardie civil che intervengono sempre senza essere invitate” (141) e “Dormì nel letto [il Nino Remigio trasformatosi nel Bello] dove Bolivar si era rivoltato la vigilia della battaglia di Junin” (143). Per quanto riguarda la sarditudine i “cachinni” (149) per un progetto utopico, una scuola enorme, richiamano quelli del bar Tettamanzi del “giudizio” sattiano per le finte nozze tra la figlia di don Pasqualino e lo scemo Fileddu, tanto somigliante a Remigio, Brazo de Santo e l’Opa Leandro. Autentica digressione è la costruzione- distruzione di diverse scuole nei più impervi picchi andini (150-160). Somigliano alla torre di Mussingallkone, ne sono archetipo e omologo. (Vedi “il racconto della torre” ). Sarà lo stesso Manuel Scorza, che i fatti narrati visse in prima persona come giornalista compartecipe (“…e mi sono salvato io solo per venire a dare la notizia”: così l’epigrafe del romanzo, dal libro di Giobbe) a dire all’inizio del capitolo 23 dei 36 del romanzo, a spiegare, il perché di questa opera infinita. Cronaca e visionarietà. Nel romanzo compare a tratti il camion “Mi vedi ma non ci credi” che ricorda quelli dei ventuleris (uno per tutti tziu Ira ‘e Deus) delle nostre infanzie e giovinezze. A pagina 188 un’altra invenzione linguistica: “Ancor prima che tu tettassi”. Per indicare il contrario in sardo si dice istittare, svezzare. Il particolare delle casacche militari (189) indossate dai comun eros come a una festa di gala – ricordo di quando furono soldati regolari e adesso tanti possibili Sierra Charriba – fanno ritornare in mente tanto western, specie quello che sconfina nelle rivoluzioni messicane di Villa e Zapata. Garabombo si trasforma in romanzo epico (191-192) leggibile a ogni latitudine quando grida: “Sono i fiumi.!…Sono i fiumi seppelliti che escono dai miei occhi…” . La faccia di Garabombo assume allora “il colore giallo del pascolo secco” (216). Il poetare degli indios in festa, o in attesa di diversa festa, di finzione della festa (203- 204) è tale e quale quello dei nostri tenores. Nella dimensione dell’epico compaiono altri elementi importanti dell’intera Pentalogia andina: Agapito Robles (205), il Macellaio Guillermo Bodenaco (211), Genaro Ledesma (223). Ci sono in Garabombo l’ Abigeo e il Ladro di Cavalli. Quando il Ladro di Cavalli parla e sparla con il cavallo Girasol sembra di sentire don Camillo e i suoi contradditori col Crocifisso. I cavalli, e i cani che li mangiano dopo il massacro (260) sono nella dimensione dei cani spenti nel “lamento per Ignazio” lorchiano. E ancora sarditudine. Dice Il Ladro di Cavalli: “Rubare a un ladro non è rubare”. È come risentire “Chie non furat no’ est homine” del “Codice barba ricino” trascritto e studiato da Pigliaru.
Il romanzo Garabombo attua la rivolta come fine. Il romanzo Garabombo, storia di un invisibile, contesta l’invisibilità.

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