La rendita è finita

16 Maggio 2008

Francesco Cocco

C’è qualcosa nel risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile, confermata dalla prova del nove delle elezioni per il Comune di Roma, da cui si evince che siamo al di là di una semplice debacle elettorale della sinistra. C’è chi tenta di spiegarla col vento di destra che spirerebbe in Europa. Il recente voto in Gran Bretagna lo confermerebbe, ma la vittoria di Zapatero in Spagna non dimostra il contrario? Il voto non è una sorta di virus influenzale che ignora i confini geografici. Invocare generiche tendenze dell’opinione pubblica finisce per essere una fuga dalle responsabilità, e non è certo ciò di cui ha bisogno la sinistra italiana.
Siamo piuttosto in presenza della fine dell’esperienza storica seguita alla caduta del muro di Berlino, alla fine cioè del cosiddetto socialismo reale. Non ingannino i quasi 20 anni trascorsi: sono fenomeni che spesso tendono a produrre i loro effetti a lunga distanza.
Vent’anni fa occorreva voltare pagina, comprendere che le ragioni storiche che in Italia erano state alla base del più forte movimento operaio dell’Occidente capitalistico, non erano venute meno ma comportavano strategie profondamente nuove. Una qualche innovazione ci fu, ma più nella forma che nei contenuti.
Di fatto venne smantellato un patrimonio di valori ed idealità. Una parte della sinistra s’illuse che bastasse richiamarsi a quel patrimonio per continuare a trarre i benefici che quell’esperienza aveva consentito di accumulare. Quasi fosse una rendita politica che avrebbe potuto dare i suoi frutti senza i sacrifici, spesso inenarrabili, che avevano consentito di accumulare quel patrimonio.
Certo era cambiato il contesto sociale, con profondi mutamenti di costume tali da imprimere caratteri nuovi alla lotta politica. Occorreva affrontarli con la rigorosa disciplina dell’analisi e dell’organizzazione politica. Alle categorie della egemonia da conquistare con la tenacia della lotta, su cui la sinistra aveva fondato la propria strategia in oltre mezzo secolo, si è preferita la via di un movimentismo inconcludente e di un sociologismo d’accatto. Il risultato alla fine è stata una sostanziale accettazione dell’egemonia avversaria. Così ha vinto certo pressapochismo sempre presente nella società italiana e pronto a prendere corpo e forza politica alla prima occasione.
La ricerca dell’egemonia comportava una chiara e sempre aggiornata visione delle forze di classe in campo. Ma una visione classista sembrava qualcosa di vecchio, di stantio. Così alla fine si è spostato il terreno dello scontro essenzialmente su problemi di costume, marginalizzando i reali rapporti derivanti dai processi produttivi in atto. Quando si è voluto richiamare un contenuto di classe si è finito per cadere in una deriva di rozzo propagandismo. Si pensi al ridicolo slogan “anche i ricchi piangono”. Con ciò dimenticando che la lotta di classe è lotta di libertà e quindi di liberazione anche per gli avversari.. Né una seria lettura delle forze in campo poteva essere richiamata durante la campagna elettorale quando in precedenza era mancata una visione non schematica delle stesse. .
Né più illuminante appare il terreno d’analisi e d’azione per il centro-sinistra schierato attorno al PD, dov’era possibile affermare “l’accettazione di tutto e del contrario di tutto”: la candidatura dell’operaio della Tyssen-Krupp e del presidente dei giovani industriali, la generica promessa dell’aumento di salari e pensioni e l’impegno alla diminuzione della pressione fiscale, il federalismo al Nord e la tutela delle regioni svantaggiate del Mezzogiorno.
In questa mancanza di una chiara bussola d’orientamento va ricercata la crisi della sinistra nei suoi vari segmenti. Non deve quindi meravigliare che la classe operaia padana ( e non solo), perduti orientamento e fiducia, abbia rivolto la sua attenzione alla Lega Nord, protesa ad affermare un orientamento populista (ma è elemento presente anche nel cosiddetto “popolo della libertà”). Che poi è un orientamento di classe certamente distorto, inconcludente e pericoloso, ma col quale bisogna fare i conti con modestia e senza alcuna saccenteria. Il fascismo degli anni 30 del secolo scorso fu anche questo. E’ un risultato che consegue alle macerie ideali in cui il mondo del lavoro è stato gettato alla fine degli anni ’80.

A spiegarci lo sbandamento verso il populismo di destra è anche il mutamento antropologico intervenuto nei partiti che dicono di richiamarsi ai valori della sinistra storica. Sino ad un quarto di secolo fa, era attenzione costante dei dirigenti di quei partiti di non allontanarsi da modelli di vita rapportati alle classi sociali di riferimento. Al contrario in questi anni abbiamo potuto verificare settori di certa dirigenza piuttosto sensibili a modelli di vita imposti dal consumismo capitalistico.
Dobbiamo riconoscere che un tale atteggiamento poteva avere una qualche sua giustificazione in un ingenuo tentativo di rendersi credibili verso determinati ceti sociali politicamente collocati al centro. In ogni caso tutto ciò ha rappresentato una perdita di coscienza di sé, la rinuncia al proprio ruolo naturale ed un implicito riconoscimento del modello e quindi dell’egemonia dell’avversario. Eppure sono aspetti sui quali la miglior sinistra ha formulato in passato acute elaborazioni. Per tutte, penso al Gramsci che elaborava il suo “partito-principe” anche come antidoto alle “legge ferrea delle oligarchie” del Michels. Per dare attualità al concetto, si osservi la chiusura autoreferenziale dei gruppi dirigenti della sinistra e di cui è un esempio evidente lo scambio quasi patrimonialistico tra Veltroni e Rutelli per il Comune di Roma.
Insomma la sinistra che voglia collegarsi alla miglior tradizione del movimento operaio non parte certo da zero ed è possibile riguadagnare il consenso a cominciare dal mondo del lavoro. E’ però necessario convincersi che il tempo della rendita è finito e bisogna riprendere il duro cammino percorso nel Novecento, anche nella consapevolezza che le contraddizioni d’allora non solo non sono state risolte ma per molti versi vanno assumendo una drammaticità maggiore che in passato.

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