Lavorare meno, vivere meglio

29 Maggio 2025

[Gianni Loy]

Lavorare meno, vivere meglio.  Il titolo del libro di Fausto Durante, segretario generale della Cgil sarda, edito da Futura editrice e presentato nei giorni scorsi a Cagliari, ricorda uno slogan sindacale degli anni 70 del secolo scorso che, per la verità, suonava leggermente differente: Lavorare meno, lavorare tutti. L’accento era posto sulla redistribuzione delle occasioni di lavoro, considerato uno strumento per la riduzione del numero dei disoccupati. 

Negli ultimi decenni, in diversi paesi europei, e non solo, sono state sperimentate leggi per la riduzione della giornata lavorativa, le 35 ore, prove di una settimana di 4 giorni. Tra legge e contratto, attraversando lo snodo del Covid – che ha modificato le regole del lavoro più di quanto non sembri – numerose di quelle esperienze hanno dimostrato che la riduzione dell’orario di lavoro, è questione che travalica l’iniziale intento solidaristico di una migliore ripartizione del lavoro.

Come ampiamente dimostrato dalla descrizione delle esperienze contenute nel volume, e dai ragionamenti che le accompagnano, è sicuramente più opportuno considerare le politiche di riduzione dell’orario di lavoro – a parità di retribuzione, s’intende – nell’ottica del miglioramento della qualità della vita. E risulta ampiamente dimostrato, dalla lettura del volume, che opportune forme di riduzione dell’orario di lavoro, non solo sono compatibili con gli interessi dell’imprenditorialità, ma possono anche arrecare vantaggi all’impresa anche in termini di produttività e di efficienza.

Durante la lettura, ho ricordato come le rivendicazioni in termini di riduzione della giornata lavorativa sono sempre andate di pari passo con il processo di progressivo affrancamento delle classi lavoratici dal dominio, inizialmente assoluto, esercitato dal padrone nei loro confronti: per orari corrispondenti all’intera giornata solare, con un salario corrispondete al minimo vitale di sussistenza, o anche meno, in presenza del completo disinteresse del potere statale, il laissez faire,  che in realtà non era vero astensionismo ma, piuttosto, sostegno al potere assoluto del padrone.

Non può sfuggire, neppure al giorno d’oggi – e nonostante indiscutibili conquiste sindacali e progressi legislativi – che i lavoratori e le lavoratrici, durante l’orario di lavoro rinunciano ad una fetta di libertà. Durante tale spazio di tempo mettono a disposizione di un’altra persona il proprio tempo, le proprie forze, la propria professionalità, assoggettano, cioè, sé stessi al dominio di un’altra persona.  

Non ponendo affermare che “vendono sé stessi al padrone”, per l’evidente orrore che tale affermazione, in epoca moderna, avrebbe suscitato, i più raffinati teorici ci ricordano che no, che non vendono né affittano sé stessi, ma semplicemente le loro energie. Non essendo semplice apprezzare la differenza tra le due fattispecie, il dibattito sulla quesitone è stato progressivamente accantonato.

In ogni caso, badando all’aspetto sostanziale, è indubbio che, al termine del tempo che si sono obbligati a cedere al datore di lavoro, può dirsi che essi riacquistino pienezza della propria libertà. È in quel tempo residuo – che un tempo era assai poco – che riacquistano il potere di disporre pienamente di sé stessi, cioè di decidere della propria vita, di scegliere liberamene cosa fare.

In questo senso, la progressiva riduzione dell’orario di lavoro – contestualmente – ha significato e significa, per simmetria, riconquista della propria libertà.

Un altrettanto, importante ri-acquisizione della libertà è derivata dalle conquiste sindacali, e dal conseguente progresso della legislazione, che hanno limitato, contestualmente, il potere datoriale anche durante il tempo della prestazione; come il controllo sulla vita privata, la vigilanza immotivata e la determinazione dell’ambito di sottomissione alle mansioni concordate.

 L’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro, come peraltro la sua articolazione, è quindi coessenziale sia alla missione sindacale di protezione dei lavoratori che all’aspirazione individuale della persona di raggiungere il massimo livello possibile di libertà – intesa nella mancanza di sottomissione al potere altrui – compatibile con i doveri sociali derivanti dalla appartenenza alla comunità, nella combinazione di diritti e doveri che tale appartenenza comporta.

Il lavoro, peraltro, è diritto che la nostra Costituzione riconosce come principio, ma definisce anche nei suoi contenuti, soprattutto quando afferma che la libertà di impresa è limitata dal diritto dei lavoratori ad un trattamento dignitoso (art. 41) o che la retribuzione dev’essere in ogni caso sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa al lavoratore stesso e alla sua famiglia (art. 36).Da ciò si intende che il tema della riduzione dell’orario di lavoro non può mai costituire, e quindi essere trattato, come segmento autonomo della vicenda lavorativa. Esso è strettamente connesso con la politica retribuita – come si evidenzia nel testo – ma più in generale con tutto l’assetto regolativo del diritto del lavoro, in particolare con le regole della conciliazione tra vita lavorativa e vita privata.

Una mera riduzione della settimana lavorativa che non sia armonizzata con la disciplina del lavoro a chiamata o della reperibilità, che non garantisca il diritto alla disconnessione, che non mantenga la flessibilità entro limiti compatibili, non produrrebbe alcun effetto reale sulla qualità della vita dei lavoratori. Altrettanto può dirsi per la questione salariale. Si dirà: parliamo di una riduzione della giornata lavorativa a parità di retribuzione. Certo. Solo che facciamo riferimento a retribuzioni con un potere d’acquisto che non compensa neppure l’aumento del costo della vita, tra le più basse in Europa, per non parlare della presenza di ampi settori, al confine dell’informalità, con remunerazioni insufficienti a garantire il minimo di sussistenza.

“Pepe” Mujica, ex presidente della repubblica uruguagia, recentemente scomparso, in occasione dell’assemblea delle Nazioni Unite svoltosi il 20 giugno del 2012 a Rio de Janeiro ha ricordato che “I miei compagni lavoratori lottarono molto per le 8 ore di lavoro. E ora stanno ottenendo 6 ore. Però chi lavora 6 ore, poi si cerca due lavori; pertanto, lavora più di prima. E perché? Perché deve pagare una quantità di rate: il motorino, l’auto, e paga una rata e pagane un’altra… e quando finisce di pagare è un vecchio reumatico come me, e la vita gli è andata via!”

Fenomeno dovuto, almeno per i lavoratori a basso reddito, non solo dalla necessità di dedicare il tempo “liberato” ad un’altra attività – regolare o informale che sia – per raggiungere un reddito sufficiente ad una vita libera e dignitosa, ma anche per adempiere al “dovere di consumo” al quale veniamo educati sin da bambini, perché sia compiuto quell’imperativo categorico della crescita del prodotto interno lordo assunto a finalità della nostra vita terrena. Crescita che non distingue l’utile dall’inutile, il bello dal brutto, il buono dal cattivo, il sano dal malato, l’egoismo dalla solidarietà e che può essere garantita, alle condizioni presenti, soltanto dalla spinta compulsiva allo spreco e dalla devastazione delle risorse naturali.

Osservo che, da qualche anno a questa parte, non si sente più parlare, almeno a livello di grande pubblico, dei temi relativi alla sostituzione del Pil con indici ancorati al benessere, della decrescita felice del buon Latouche, e che la transizione ecologica non solo è stata rinviata, non solo cancellata dalle urgenze più immediate, ma persino derisa da una pubblicità inconsulta, interpretata dagli stessi governanti, che esalta il ritorno alle cannucce in plastica, o lo spreco dell’acqua per uno sciampo che, secondo la predizione di Giorgio Gaber, ha il potere di allontanare dalla nostro immaginario ogni preoccupazione per il tragico presente che viviamo – ivi compresa la carneficina che si sta consumando nella Palestina . E poi l’esaltazione per il fossile, per il rombo del motore diesel, per la velocità: sembra di riascoltare i proclami di Marinetti di un secolo fa.  

Ed invece, dovremmo rileggere la lunga e dolorosa lotta del movimento operaio e sindacale per la conquista di migliori condizioni di lavoro, e di vita, che tanti morti e tante sofferenze ha lasciato nel suo cammino.  

Lavorare meno, per vivere meglio. Si può, si deve. Ricordando di sottolineare, a scanso di ogni equivoco: perché vivano meglio quanti oggi arrancano.

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